Vercellone, «L’estetica del cibo può aiutare a ritrovare il senso di noi stessi»

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Federico Vercellone, filosofo che indaga l’estetica contemporanea si confronta con Bruno Bignami, “teologo dei beni comuni”, domani sera alle 18 al Borgo Medievale del Valentino per la seconda serata di Pensare il Cibo, dedicata ai temi dell’abbondanza e degli sprechi.

Vercellone insegna estetica proprio nell’Ateneo torinese, una disciplina che ancora oggi è il ponte tra la filosofia e la percezione sensoriale dell’Uomo. Il cibo è proprio una delle nuove frontiere dell’estetica che non può non tenere conto del bisogno di abbondanza da parte dell’Uomo (soprattutto di quello della società dei consumi) guardando però alla necessità di fare pace con il Pianeta.

Per Vercellone un’estetica del cibo è utilissima per ricomporre il quadro sociale che la modernità ha frammentato.

«La riflessione su un’estetica del cibo è importante nel determinare il valore che diamo alla risorsa alimentare – sostiene Vercellone – Finora abbiamo lasciato che la fruizione estetica si focalizzasse molto sui sensi della lontananza (vista, udito) senza badare troppo al coinvolgimento dei sensi della vicinanza (olfatto, tatto e gusto). Invece dobbiamo proporre come centrale la questione estetica alla portata dei sensi della vicinanza».

Il cibo, per Vercellone, diventa dunque centrale anche nell’educazione a una percezione di noi stessi.

«Tutto sommato il cibo è centrale nell’esperienza estetica di sempre. Il cibo ha da sempre una portata simbolica fortissima, con un relativo potenziale di inclusione ed esclusione in una comunità: se mangi come noi sei dentro la comunità, chi mangia altri cibi appartiene ad altre comunità. Oggi, la sfida non è più la contrapposizione tra le identità ma realizzare il massimo dell’inclusione delle culture. E in questo il cibo ci può aiutare moltissimo: una cucina estetica, una cucina vicina al concetto di arte e di espressione può votarsi a creare identità nuove proprio attraverso il cibo».

L’atto del mangiare e il prodotto dell’elaborazione culturale che viene ingerito nel corpo rimandano poi sempre a un atto fisiologico ma sociale dove si compiono rituali che uniscono le comunità umane.

«Cibi di culture diverse possono unire gli uomini invece che dividerli, ma alla preparazione culinaria pura e semplice e al gusto che ne viene fuori dobbiamo aggiungere la dimensione rituale e di festa che accompagna il consumo alimentare. Questa dimensione è collegata al bisogno di abbondanza che era proprio di ogni tavola imbandita a festa e che oggi sta nella spettacolarizzazione televisiva della cucina».

E qui dentro c’è il problema dell’effimero e dello spreco alimentare che danneggia la Terra e insulta uomini che non hanno cibo a sufficienza. Ma per Vercellone l’abbondanza fa bene alle persone se le include e le rende partecipi.

«Attraverso la condivisione del gusto (è questa l’abbondanza ndr) si possono individuare modelli di riconoscimento che sono terapeutici. Per dirla con parole povere, se condivido una bella tavola imbandita con un sacco di persone che finisco per trovare simpatiche, il gusto e il piacere di vedere quell’abbondante condivisione non mi fa sentire solo, l’estetica del gusto in questo senso ha anche una importante funzione terapeutica. Forse la secolarizzazione figlia dell’Illuminismo si porta con sé una fragilità che è sfociata nell’individualismo. Oggi serve ricongiungere quello che la modernità ha spezzato: il sentimento intimo di ogni persona va ricollegato al sentire esterno, al senso comune. Due sentieri, quello interiore e quello esteriore che devono essere ricongiunti. Un atto che può essere estremamente favorito proprio dal cibo condiviso, dal piacere della convivialità».

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