La fragilità ipermoderna. Intervista a Massimo Recalcati, di Valentina Grimaldi.

Recalcati

Pubblichiamo alcuni brani di un’intervista a Massimo Recalcati, pubblicata nel suo Elogio del fallimento. Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza, Erickson, Trento, 2011.

 

Valentina Grimaldi: Nel tuo lavoro il riferimento alla vita della città, alla dimensione dei legami sociali, è una costante tra le più importanti. Ti ho sentito dire una volta che gli esseri umani fanno col cibo quello che fanno con il loro Altro. Tu hai un rapporto decisamente libero con il cibo, per te il gusto, la buona cucina, è qualcosa di assolutamente importante… Mi sembra che occupi un posto non qualunque nella tua vita quotidiana. Mi ha colpito, quando ti ho conosciuto, vederti mangiare. Eri un misto di avidità e di curiosità. Mi colpiva la rapidità vorace con la quale mangiavi… Oggi viviamo in un’epoca dominata dalla precarietà, dall’allentamento dei legami che coinvolge le persone e al tempo stesso le nostre città, la vita sociale nel suo insieme, gli spazi interni e quelli esterni, quelli privati e quelli comuni. Cosa ci puoi dire della fragilità che caratterizza la forma prevalente dei nostri legami sociali? E cosa osserva Jonas  [il centro di clinica psicoanalitica fondato nel 2003 da Massimo Recalcati] dalla sua prospettiva che è una prospettiva di ricerca e di cura delle cosiddette nuove forme del sintomo?

 Massimo Recalcati: Gli esseri umani parlano come mangiano? Sì, effettivamente è un’affermazione che riconosco come mia. È sicuro che il luogo della parola e il luogo del godimento orale coincidono. Lacan diceva che non si mangia mai da soli e forse era un modo per dire che la parola, come il cibo, è un oggetto sociale. Il mio ricordo di quando ti ho conosciuta è che tu non mangiavi niente. Penso ai primi tempi della nostra frequentazione. Parlavi e non mangiavi. Le donne quando sono scosse da qualcosa tendono a rispondere con la chiusura dello stomaco… non è vero? Come mangiamo oggi io e te? Mi piacerebbe rivolgerti questa domanda. Se però la rivolgo all’esterno di noi due, se la rivolgo alla nostra cultura, non posso non notare che si mangia sempre più da soli. Ne L’ultima cena [M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano, 2000] parlavo di un declino del Convivio per sintetizzare una tendenza in atto, ovvero quella della diserzione della tavola dell’Altro, dell’offesa della dimensione simbolica della commensalità che isola i soggetti nel loro godimento, che spezza il legame tra la parola e il cibo… Più in generale, la fragilità che i nuovi malati della nostra epoca esibiscono nei corpi e nelle menti è un effetto di come la nostra Civiltà pretende di liquidare la centralità della dimensione dello scambio simbolico e della Comunità. Questa dimensione sembra aver lasciato il posto al culto individualistico di se stessi, a un’esigenza imperiosa di accedere, senza rinunce, a un godimento immediato e solitario. Un corteo di attori stralunati attraversa così le nostre città: tossicomani, alcolisti, anoressiche e bulimiche, obesi, iperattivi, depressi, panicati… Sono le nuove versioni del disagio della Civiltà di cui si occupa Jonas e il cui sfondo sociale è costituito da uno sbriciolamento progressivo della tenuta dei nostri legami sociali: perdita di radici, precarietà, volatilità delle sensazioni, distruzione dell’esperienza, iperstimolazioni incessanti, tossicomanie, tramonto degli Ideali, isolamento, assenza di avvenire, chiusura paranoica e razzista rispetto allo straniero, cinismo disperato, consumo compulsivo, smarrimento, svuotamento del valore simbolico della parola, impero dell’oggetto, annichilimento del senso, spinta imperativa al godimento immediato, fatica di desiderare, vuoto diffuso, pratiche pulsionali perverse, iperedonismo, assenza di desiderio.

Penso che la fragilità ipermoderna abbia come sfondo la perdita del senso del vivere in uno spazio comune, in una Comunità umana. La tendenza dominante è piuttosto quella dell’isolamento, del godimento solitario, del ripiegamento autistico, indifferente all’Altro. I legami sociali perdono consistenza, si liquefanno, non hanno più un centro di gravità. In contropartita, la lista dei partner inumani cresce e prolifera: droghe, cibo, psicofarmaci, oggetti tecnologici, gadget, alcol, l’immagine di se stessi…

[…]

V. Grimaldi: Del tuo lungo lavoro sull’anoressia la cosa che mi ha più colpita è l’idea che l’anoressica usi l’immagine del suo corpo per non mancare di nulla, perché è un’idea che rovescia il rapporto solito della femminilità con l’immagine del proprio corpo. Per una donna apparire è un modo per farsi esistere. La bellezza di una donna deve saper catturare lo sguardo dell’Altro. L’immagine del corpo dell’anoressica invece sembra bastare a se stessa. E’ un’immagine che forse tu definiresti «solida».

 M. Recalcati:  Sì, l’immagine del corpo magro è un’icona sociale che offre solidità al soggetto e in questo senso possiamo dire che è un’immagine solida. Ma che tipo di fragilità è la fragilità che abita il corpo anoressico? È una fragilità paradossale che si produce per un eccesso di compattamento, per un rafforzamento ipertrofico della volontà. In questo senso il problema dell’anoressia è il problema che attraversa oggi tutte le nostre città: è un problema di confine. L’anoressica promuove e, allo stesso tempo, patisce dell’irrigidimento dei suoi confini, del confine del proprio corpo-magro. La città anoressica è una città arroccata, curtense, chiusa allo straniero. La psicoanalisi ci insegna che i confini sono necessari alla vita, individuale e collettiva, ma se si ipertrofizzano, se perdono la loro porosità, anziché proteggere e dare senso di identità e di appartenenza alla vita possono anche distruggerla. In questo senso la bellezza anoressica è davvero una bellezza sterile perché non punta al desiderio dell’Altro ma alla sua estinzione.

[…]

V. Grimaldi: In fondo stai descrivendo un corpo femminile che rinuncia alla bellezza in cambio di realizzarsi come una fortezza… Ma avere un corpo bello, in forma, vissuto non come un corpo estraneo ma come un corpo che sa esprimere una grazia non è qualcosa che riguarda intimamente la femminilità? Dove inizia per una donna la patologia dell’asservimento all’immagine ideale del proprio corpo?

M. Recalcati: Quando la bellezza non è più in rapporto ad alcuna grazia ma viene perseguita come un’esigenza conformistica. Tu sai bene cosa significa abitare con grazia il proprio corpo… non significa forse ornare il niente che lo attraversa? La bellezza femminile, che non è affatto una fortezza, non è forse la manifestazione di qualcosa che eccede sempre l’immagine stereotipata e conformista della bellezza? Non è la bellezza irripetibile di un particolare impossibile da riprodurre?

Opinioni