Di Massimiliano Borgia
Oltre al filosofo e all’esperto dei meccanismi sociali della comunicazione, per indagare le ragioni delle bufale e dell’affermazione della post verità, serve la psicanalisi. Per questo, martedì 24 al Circolo della Stampa di Torino interverrà Antonella Ramassotto, psicoanalista, vice presidente del Centro Teco di Torino, sodalizio di professionisti specializzato nell’analisi e nella cura del disagio psichico.
La post verità nasce dalla nostra tendenza a preferire un dato non corretto ma che ci fa comodo, piuttosto che un fatto vero e incontrovertibile con cui non riusciamo a fare i conti.
Ma perché la nostra “intelligenza” preferisce una convinzione piuttosto che una verità?
«Per Freud – spiega Ramassotto – la differenza tra un errore e un’illusione sta nel fatto che un’illusione è un errore che si nutre del desiderio di crederci. Sostanzialmente l’uomo contemporaneo vuole credere in sé, nella propria compattezza, si vuole autonomo e indipendente dagli altri. Padrone in casa propria. Libero dai bisogni e affrancato dai desideri in quanto autorizzato a soddisfarli, quando non a prevenirli. È un progetto che non prevede ostacoli. Ogni difficoltà, ogni disagio o inciampo che porti con sé la traccia della nostra umanità è vissuto con vergogna, come una macchia che deturpa. Da cancellare. Paradossalmente l’illusione contemporanea cresce all’ombra del desiderio di poter ridurre a errore lo scarto che ci rende sempre un po’ stranieri a noi stessi. Oggi sembra importante convertire ogni sofferenza in malattia, farne un disturbo che allude a un’integrità che è possibile ripristinare. Un disturbo da consegnare all’intelligenza della medicina affinché ce ne sbarazzi, o all’indulgenza della farmacologia che almeno lo riduca al silenzio. Ma un sintomo è un segnale che chiede di essere ascoltato, non zittito o rubricato. Non usato per nominarsi, perché l’umanità è ammalata di parola e la parola scatena malattie contagiose».
Non sarebbe più rassicurante, anche se più faticoso, darsi da fare per ricercare e scovare una verità, piuttosto che vivere nella semplice convinzione che può ribaltarsi da un momento all’altro?
«La ricerca è sempre un’impresa impegnativa e le imprese impegnative non sono mai rassicuranti. Occorre essere attrezzati e in questo ogni tempo ha i suoi figli. Sempre più spesso ricevo in studio giovani cresciuti da genitori convinti di dover avere per forza qualcosa da dire o da dare, e così abdicano alla funzione etica di avviare i propri figli sulla strada della ricerca. Il tempo del silenzio è il grande assente della contemporaneità. Quando il silenzio non riesce a trasmettere interesse, curiosità, apertura alla parola dell’altro, ma è vissuto come un segno di debolezza, un oggetto può diventare l’unico appiglio capace di comunicare ai figli un segno tangibile del proprio valore. Può trattarsi di un sapere oggettivato, dispensato come un oggetto di consumo da chi fa mostra di sapere chi sia l’altro e cosa sia bene per lui. In realtà i genitori più rassicuranti sono quelli che lasciano un po’ a desiderare. Quelli che sanno essere all’altezza dei propri limiti, che sanno farne una risorsa capace di trasmettere ai figli il valore di una mancanza, di un desiderio che possa sostenerli nella ricerca della propria verità. Non si realizzeranno trovandola, si realizzeranno cercandola; muovendosi. Forse non è rassicurante, ma è la vita stessa».
Quando e perché ci fidiamo e non ci fidiamo?
«Quando veniamo al mondo c’è un altro che ci attende. Un altro da cui dovremo separarci come da un pezzo di noi stessi a cui siamo costretti a rinunciare. Un altro che ci ha riservato un posto e custodisce il segreto del desiderio che ci ha dato la vita. È a lei, alla madre che ci accoglie, che guarderemo per scoprire le coordinate di quel posto che siamo chiamati a occupare. Chi porta le stimmate di quel sapere meriterà la nostra fiducia. Il desiderio di riconoscimento è la forza fondamentale che spinge l’essere umano verso l’altro e la fiducia si rivolge sempre al sapere. Non si tratta del riflesso di un sapere accumulabile, erudito, ma dell’ombra di una verità che ci riguarda che traspare da una frase, da una parola che sembra messa lì apposta per noi. È una fiducia che non va tradita, e perché questo non avvenga è fondamentale che non siamo i primi a credere a tutto il sapere che ci viene attribuito. Altrimenti corriamo il rischio di entrare a far parte della schiera di coloro per i quali la mancanza non è prevista. Se nell’altro non c’è mancanza non c’è posto per noi. Quindi occorre inventargliela, sfuggendogli, sottraendosi al suo sapere, alle sue cure, alle sue attenzioni, fino a ridurlo all’impotenza. L’impotenza è l’effetto di ritorno di una fantasia di onnipotenza. È quella particolare condizione in cui ci si trova quando si rinuncia a fare i conti con l’impossibile. A farne occasione di ricerca».
Perché il cibo è un terreno di sedimentazione delle nostre convinzioni, e perché facciamo così fatica a cambiare idea sul cibo?
«A differenza degli animali, per l’uomo mangiare non è un fatto naturale. Il latte, l’oggetto necessario alla soddisfazione di un bisogno fisiologico, non arriva mai puro al bambino. Il latte puro è mortale. Ce lo dice l’anoressia neonatale, che lo rifiuta. Quel che conta è che al bambino la presenza della madre arriva prima dell’oggetto che gli offre. Ogni madre porta con sé il mondo in cui si riconosce ed è in quel mondo che ogni bambino deve trovare il suo posto. Con il cibo una madre trasmette non solo colori, profumi e sapori di una cultura, ma il valore che dà alla sua funzione di nutrice, l’attenzione che riserva alle reazioni del suo bambino, lo spazio che lascia alle sue preferenze, alle sue prime scelte. A lui. Al di là del corpo, il rapporto con il cibo come tramite del legame all’altro nutre il senso di appartenenza, e per l’uomo dare un senso alla vita vale più della vita stessa. Per questo la sfera dell’alimentazione è un territorio in cui si sedimentano convinzioni, intransigenze, preconcetti e passioni, ed è così difficile cambiare abitudini alimentari. Per questo si può rifiutare un alimento, senza averlo mai assaggiato, come se venisse da un altro mondo a scompaginare il nostro».