Pantalone e la nuova vita di Arlecchino. Un contributo alla riflessione sull’art.18.

In quanto segue vorrei argomentare, in modo temerario, che l’abolizione dell’articolo 18 non è né una sottrazione di diritti, né un provvedimento di destra che situa il lavoro in una cornice compiutamente privata. Proprio al contrario, sostengo che l’abolizione dell’articolo 18 intende ridefinire la servitù nell’epoca della globalizzazione al fine di guidare una nuova emancipazione; e che le posizioni del sindacato e della sinistra del Partito Democratico nascono non già da una tutela della responsabilità sociale degli interessi economici, ma da una privatizzazione del diritto pubblico che ha condotto a una precisa accezione di protezione.

La tesi è talmente estrema da sembrare una provocazione. E può apparire una tesi più realista del re, quando si sente ripetere da esponenti del governo e della maggioranza – forse per motivi strategici – che l’articolo 18 non conta nulla, nell’economia della riforma del lavoro. Perché allora attaccare un simbolo della storia della sinistra? Sono i maligni poteri che guidano l’Europa, cioè gli interessi del grande capitale, ci si risponde da sé, a esigere questo sacrificio simbolico, come fanno le crudeli divinità assetate di sangue.

Invece, occorre guardare a questo provvedimento come al tentativo importante di realizzare uno spostamento copernicano del baricentro della lotta tra il Padrone e il Servo. La questione è di grande momento, perché decide l’identità della sinistra. Piuttosto che ricorrere alla tesi dell’infiltrato da destra, e affidarsi esclusivamente a rivendicazioni identitarie che porterebbero soltanto all’ennesima scissione, è meglio approntare degli argomenti per una autentica discussione.

Quando il Presidente del Consiglio dice che l’imprenditore non è cattivo, la sinistra storica si disorienta, e si convince di essere stata vittima di un proditorio cavallo di Troia. In che cosa ci distinguiamo dalla dilagante retorica neoliberista? La nostra storia è la storia della lotta tra il Servo e il Padrone. I Padroni non sono affatto scomparsi e noi non abbiamo raggiunto la fine dei conflitti, cioè quella fine della storia che stava nelle convinzioni di Francis Fukuyama. Anzi, proprio le democrazie liberali possono essere additate come semplici agenti dei flussi globali di capitali, che sono Padroni giganteschi e invincibili, senza misura e quindi senza regole: senza diritto.

In effetti, la forza degli interessi economici è diventata devastante e pervasiva. Bisogna tuttavia chiedersi se questi Padroni senza misura, che si muovono nel caos di interessi economici incontrollati, non prosperino tanto più, quanto più si rinuncia a un’idea della politica come visione dall’alto e quindi teatro di diritto pubblico: quanto più si rinuncia a vedere nella globalizzazione un evento giuridico e quanto più, rimanendovi all’interno, lo si ritiene puramente predatorio. Bisogna chiedersi se la ragione della inefficacia delle idee della sinistra nell’affrontare il problema della globalizzazione non stia nell’aver esteso la presa di possesso, che è una nozione di diritto privato, a essenza del politico.

Il diritto privato regola i rapporti tra soggetti che stanno sullo stesso piano, e sembra perciò realizzare l’istanza democratica dell’uguaglianza, contro la logica dei Padroni. Il diritto pubblico invece, che regola i rapporti asimmetrici tra lo Stato e il cittadino, è apparso agli occhi della cultura di base della sinistra una compromissione con la logica di dominio del Padrone sul Servo: lo Stato è il Padrone, e l’istituzione della legge, lungi dal rappresentare il nesso tra protezione da parte dello Stato e adesione da parte dei cittadini, è invece espressione degli interessi del più forte. Il Servitore dello Stato, poiché accetta quella logica e non si ribella, è colluso con quegli interessi. Dobbiamo chiamarlo Servo dello Stato, come si ribadiva nei momenti più bassi della nostra storia politica.

Anche senza soffermarsi sui cupi estremismi della nostra storia nazionale, non è comunque difficile rilevare che il diritto pubblico nella cultura critica è stato comunque circondato di sospetto. Nell’azione politica non si tratta per essa di riconoscere istituzioni, ma innanzitutto di trasformare la realtà mediante la prassi e il lavoro. Al massimo del diritto pubblico ci si occupa per regolare i rapporti internazionali, ma ricorrendo alla sottospecie del diritto penale. I tiranni vengono denunciati al magistrato, visto che il tribunale (internazionale!) viene inteso, più che come il tutore dell’ordinamento, come il tutore del privato cittadino. Il quale, come tale, singolarmente e universalmente, è davvero sovrano, e se non diventa tiranno è solo per conclamata mancanza di sudditi. I conflitti allora non vengono più inquadrati nelle istituzioni dello jus publicum internazionale, e per evitare il ricorso a un’istanza superiore e verticale (le organizzazioni internazionali non sono forse la peggiore sentina di inconfessabili interessi?) vengono denunciati alla giustizia penale e affidati alla retorica morale.

In questo Carl Schmitt aveva ragione: la deriva verso il diritto privato caratterizza tutto il Novecento, sia nelle idee liberal-borghesi, sia nelle posizioni del pensiero critico. Questa è anche la ragione della debolezza della costruzione politico-istituzionale dell’Europa.

Nel deposito di idee della sinistra, la presa di possesso come essenza dell’elemento politico è un’idea bolscevica, più che marxista. Essa ha dissolto la nozione di riconoscimento, giuridica per eccellenza, e considerata reazionaria in quanto rivolta a legittimare qualcosa di esistente. Al riconoscimento giuridico è stata contrapposta la nozione economica di trasformazione, legata all’essenza del lavoro e alla sua capacità di cambiare il mondo nel presente e nel futuro, prendendone possesso. Non si tratta allora di riconoscere qualcosa di esistente, ma di trasformarlo per un futuro migliore. Il lavoro stesso, cioè l’azione di trasformazione del dato, diventa una pura prassi continua, mai interrotta da un momento di riconoscimento del risultato. Nella prospettiva bolscevica la qualità hegeliana e ancora marxista del lavoro, di essere un appetito trattenuto e quindi di aprire uno spazio di differimento rispetto al consumo immediato, viene a cadere. Nel lavoro non ci si raddoppia più in un mondo che abbiamo costruito con le nostre mani e che guardiamo con soddisfazione, riposandovi. Secondo il principio leninista, nel lavoro esperiamo la rivoluzione permanente, cioè la costante appropriazione dell’esterno e la sua negazione sempre rinnovata. Chi si ferma a guardare è perduto: è già compromesso con la difesa dell’esistente. Non è un caso che Lenin, quand’era in Svizzera, avesse avuto modo di lodare il pensiero di Giovanni Gentile circa la negazione del dato e il costante passare ad altro dell’atto dell’intelligenza. Gli schieramenti, negli anni ’10 e ’20 del Novecento, non erano quelli a cui ci hanno abituati. L’opposizione tra presa di possesso e riconoscimento era una questione che risaliva al giacobinismo dell’Io di Fichte e delle sue negazioni, cui si contrapponeva la sensibilità di Hegel per la manifestazione sensibile come elemento Terzo.

In questa prospettiva dell’esclusiva centralità del diritto privato e della presa di possesso, la contrapposizione tra Servo e Padrone è sempre mitica, senza misura. È la contrapposizione tra un cosmo e un caos, cioè tra l’universo ordinato degli interessi di cui si è preso possesso, avendoli posti sotto il giogo delle regole della politica, e il libero caos degli interessi economici. Nella prospettiva marxista-leninista il Padrone è allora sempre qualunque titolare di interessi economici, cioè ogni imprenditore, che come tale non è ancora entrato nel gioco democratico. Perché la sua presa di possesso agisce in proprio e non è stata ancora presa in possesso dalla collettività, attraverso le leggi. E anche se adesso questo linguaggio sembra carico di vecchi ideologismi, tuttavia la dialettica sociale viene affrontata ancora con questa chiave di lettura, nella sinistra che si appoggia alla propria memoria. La lotta politica allora, in assenza di un ordinamento collettivistico, viene delegata all’esercizio del codice. La legge limita gli interessi economici garantendo in tal modo la protezione dei più deboli. La fine del comunismo è stata metabolizzata, a sinistra, più come passaggio alla legalità che come passaggio alla libertà nelle istituzioni.

La sinistra storica è adesso in mezzo al travaglio della nascita di qualcosa di nuovo rispetto alla legalità: la legittimità delle istituzioni. Ciò a cui il Presidente Napolitano, e oggi Mattarella, insieme a molti loro predecessori, hanno chiamato il Paese, tenacemente. Nel frattempo, la denuncia morale del Padrone ha fiancheggiato il desiderio di denunciarlo penalmente, e di portare alla sbarra di un tribunale del popolo tutta la classe dei Signori, su su fino allo Stato, al Papa, all’Imperatore e a Dio stesso, nel cui nome si commettono così tanti crimini.

Ma per non dare del bolscevico a Bersani, che per la tranquilla limpidezza del suo impegno non lo merita, vorrei dire che la deriva verso il diritto privato stava già in alcuni elementi statunitensi del codice genetico del ’68. Stava cioè nell’aria che si respirava. Come si diceva, questa deriva verso il diritto privato ha accomunato Est e Ovest, nel Novecento. L’idea catalizzatrice di questa fusione chimica è stata la fine dei conflitti. La quale non stava solo nell’immaginario di Francis Fukuyama, a coronamento liberal-borghese del Congresso di Vienna dopo il 1989, ma anche nell’immaginario armonico che ha preceduto e trascinato il ’68, in una sorta di versione appunto chimica della società senza classi. Si trattava della trasposizione politica del viaggio dell’LSD, durante il quale si poteva credere che l’altro non fosse davvero altro, ma che tutti fossimo parte di una grande energia cosmica che annullava le differenze e ci portava in un amen in paradiso. Era il paradiso della società conciliata, senza guerre e senza gerarchie. Le divisioni erano create artatamente dalla malvagia autorità pubblica, sempre interessata a inoculare la paura e la divisione, per controllarci. Non ricordate? I Padroni stavano nella sfera pubblica, mentre la libertà stava nel viaggio privato, che volevamo condividere universalmente. Una volta appropriati di noi stessi e del nostro acido, la condivisione universale, sempre venata di sarcasmo, era garantita. Si doveva chiamare socialismo. In verità la sinistra mondiale attraverso l’LSD aveva acquistato già allora questo tratto statunitense della diffidenza verso l’istituzione giuridica pubblica e la predilezione per l’iniziativa privata. Gli ideali di giustizia sociale, la lotta dei neri in Alabama, la riflessione sulla dimensione politica della violenza, hanno perso quasi subito, a Berkeley, la loro dimensione giuridica pubblica, e sono stati sviluppati con concetti tratti dal diritto privato. La giustizia sociale è diventata una questione di presa di possesso di sé. La lotta dei neri, che per fortuna, attraverso la concretezza della lotta contro il privilegio e la discriminazione, e intorno alle garanzie pubbliche delle borse di studio, è proseguita per suo conto (fino al reverendo Jackson e a Obama), nel movimento è stata invece declinata sotto le insegne dell’amicizia e della fiducia, che sono atti privati. La questione del Vietnam (da noi, la questione dei Servizi deviati e di Piazza Fontana) è diventata, per chi aveva stomaco, la scelta del terrorismo, col quale la violenza pubblica diventava violenza privata: anch’essa un viaggio che prometteva di diventare universale attraverso l’appropriazione del segreto della vita.

Oggi, nel tempo della globalizzazione, occorre abbandonare la centralità delle categorie del diritto privato. Il Padrone non è più l’imprenditore come attore illegale della presa di possesso, ma è lo spazio globale, sottratto alla politica, dei flussi di denaro. Bisogna sostituire la categoria della presa di possesso con quella di ordinamento globale legittimo. La possiamo raggiungere attraverso la ricerca della linea che dà forma e misura, e segna il limite. La categoria di diritto pubblico che deve guidarci è quella di riconoscimento del limite.

La globalizzazione è infatti un evento giuridico pubblico. Se abbiamo una autentica vocazione politica, dobbiamo saper vedere nella globalizzazione non già il fenomeno dell’estensione universale della predazione, ma l’introduzione della questione del limite dell’ordinamento. Nella misurazione della Terra giunta a coprire l’intera superficie del globo, giunta al limite, diventiamo più coscienti della natura di un ordinamento. Ogni ordinamento statale riconosce grazie alla globalizzazione il proprio limite, la propria finitezza e il proprio debito rispetto al tutto. E il tutto globale giunto a Finisterre acquista consapevolezza del proprio limite: quindi acquista l’idea della propria nascita e della propria dipendenza da condizioni effettive che lo mantengono in vita; ma anche la percezione della propria precarietà e della possibilità di venir meno. L’esperienza della bomba atomica ha anticipato la globale coscienza della possibilità del venir meno di un ordine mondiale; che oggi ci agita secondo accenti apocalittici, ma che costituisce anche quella angoscia che è salutare e necessaria alla percezione responsabile di un destino.

Con la dimensione del limite, si traccia la linea di quel recinto che dà forma alla nostra esistenza ormai globale. È quel recinto della legge che ci protegge dalla prossimità a tutte le pulsioni distruttive e ci dà il senso di appartenenza a questo tempo e a questo ordinamento mondiale. È questo il motivo per cui non dobbiamo più intendere il mercato come un fatto privato, di predazione e di svuotamento del lavoro a opera del valore-merce. A far scattare questo riflesso marxista ha contribuito il tratto finanziario della profonda crisi attuale. Ma la finanza non è l’astrazione di un’orgia di godimento di élites che devastano l’esistenza concreta di noi Servi di tutto il mondo. Il suo legame con l’istituzione della legge è più profondo di quanto non vogliamo riconoscere, e non si limita al livello del diritto privato del contratto. Il mercato finanziario come libera predazione speculativa, che scommette in modo sadico sul prezzo delle derrate alimentari per uccidere milioni di persone, esiste solo come totem negativo. Peraltro, soprattutto in Italia non abbiamo neanche l’idea di che cosa sia un reale mercato come costituzione delle regole. Ci siamo assuefatti alla prassi dell’imprenditore che per trovare il proprio spazio si avvale dell’amicizia del politico di turno. Il mercato è invece esposizione reciproca dei suoi attori, nella quale l’astrazione del sistema significante del denaro si confronta costantemente con il venire all’esistenza dell’Altro, rispetto al quale siamo costitutivamente in debito: gli eventi del mondo, le crisi di produzione, le decisioni politiche globali, e le reazioni a essi di tutti gli attori. Il debito non è un pretesto virtuale per imporre sulle nostre teste un’autorità dispotica. Il riconoscimento del limite e del debito dev’essere posto a fondamento della nostra politica del lavoro, non della nostra schiavitù. Il lavoro non è la realtà singolare schiacciata dalla legge universale del profitto, ma la forma singolare che il denaro acquista nell’esposizione reciproca del mercato. Una forma singolare: un meraviglioso ossimoro che interrompe l’universalità della forma per far posto al tratto sempre eccezionale del singolo. Il recinto simbolico del mercato non è mai chiuso: nei suoi varchi la riforma del lavoro invita il lavoratore a muoversi con più fiducia, sotto la protezione dinamica dello Stato; per riqualificarsi e reimmettersi in un mercato del lavoro che sia un luogo di opportunità e non una trappola schiavizzante.

Perciò è giunto il momento di guardare al mercato globale come al contesto della Costituzione delle regole. Ci si può fare beffe di questa impresa solo se si è scelto sin dall’inizio di rigettare le istituzioni pubbliche a vantaggio di qualche forma di appropriazione privata. Non è un caso se nell’orizzonte della presa di possesso, in cui si muove il marxismo-leninismo più ideologico (proprio allo stesso modo dell’iper-liberismo), il lavoro perde la sua dimensione di realizzazione del singolo e la sua capacità di portarlo all’esistenza pubblica, e diventa maledizione, sfruttamento da parte del capitale, asservimento della vita e umiliazione della sua libertà. Il lavoro leninista non costruisce più niente, assimilandosi in tutto al tormento di Sisifo di ricominciare sempre di nuovo senza mettere capo a niente. Solo in virtù di questa accezione di lavoro la costruzione internazionale del socialismo avrebbe potuto contare sulla sempre crescente frustrazione delle masse operaie, per preparare altre rivoluzioni in altri Paesi. In Unione Sovietica, invece, il lavoro deprivato di ogni ontologia conservava in vita la rivoluzione permanente e teneva in piedi i piani quinquennali, fino allo sfinimento di Stachanov e dell’intera economia sovietica.

Ma poiché oggi nessuno vuol essere Stachanov, nemmeno per un Padrone bolscevico, e tanto meno per un Padrone capitalista, allora la trincea del lavoro è stata scavata sul fronte della tutela legale e della giusta causa. La lotta politica viene delegata alla magistratura, che viene deputata alla regolazione dei rapporti tra il Padrone e il Servo; e invece di svolgere il compito politico di approntare la protezione del lavoratore mediante decisioni politiche in un ordinamento legittimo, si sceglie di ideologizzare il sindacato. Seguendo per sovrapprezzo il principio berlusconiano del privato che consuma lo spazio pubblico, attraverso il diritto alla proprietà del posto di lavoro. Invece di individuare lo justus hostis del lavoratore nella globalizzazione, che diventa justa proprio in quanto viene inquadrata come istituzione giuridica, si sceglie di alzare la bandiera della justa causa. La quale è justa per motivi legali, orizzontali, di diritti contrattuali di possesso, e non già per motivi verticali, giuridico-istituzionali, di fondazione di un ordinamento.

Ma lo si sa: l’invocazione continua della legge del Codice supplisce a una nostra mancata iscrizione nel recinto della legge Costituzionale, della legge che ci costituisce ordinando e proteggendo la nostra esistenza. La centralità politica della magistratura segnala che la legge che ci costituisce, cioè la legge del debito rispetto a qualcosa che ci è superiore, è stata scalzata dalla legge della presa di possesso di sé, che alimenta il mito dell’auto-generazione nell’umanismo di sinistra. Non siamo debitori a niente che ci trascenda, si è ripetuto da cinquant’anni, ed essere liberi e uguali significa cancellare ogni dimensione verticale di dipendenza e ogni riconoscimento del limite. Questo è il problema culturale che oggi paralizza il rapporto della sinistra storica con l’istituzione della legge, e col nesso che essa pone tra protezione e senso di appartenenza. Il lavoro dà forma al mondo, nutre la vita invece di asservirla, e dà senso di appartenenza all’impresa comune, solo se rinuncia al mito dell’auto-generazione e acquista un diverso rapporto con il debito e con le istituzioni. Sarà la vita nuova di Arlecchino.

lbagetto@yahoo.it

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