Ripensare alla morte come rituale allegro e conviviale

teschi
L'intervento della filosofa e tanatologa Marina Sozzi

L’intervento della filosofa e tanatologa Marina Sozzi

Molte culture hanno affrontato il momento della morte come un momento di festa e non di tristezza. Al centro di questa concezione così lontana dalla nostra, c’è sempre stata la convivialità del cibo.

Ancora oggi, in molte parte del mondo, dopo il funerale si partecipa a un convivio familiare, dove il cibo è ancora una volta occasione per restare ancora un po’ insieme e partecipare al dolore in modo condiviso.

E proprio di come affrontare il tema della morte si è parlato mercoledì 22 aprile 2015 presso il Polo formativo e di ricerca Officina H di Ivrea (TO) la conferenza inaugurale di Effimeria dal titolo “Ritualità dell’Effimero: storia e antropologia delle forme culturali attorno alla morte. Dobbiamo per forza piangere?”.

Progetto ideato da Biloura, Collettivo Teatrale Internazionale, Effimeria tratta, attraverso una creativa commistione di linguaggi e di modalità differenti, il tema della morte secondo molteplici punti di vista.

Accolti nell’aula 3 da un’installazione artistica comprendente una lapide, dei teschi, frutta e verdura freschi, ideata e realizzata dall’artista Luca Zurzolo, il pubblico è sto immediatamente coinvolto temi della giornata dalla proiezione del video­test di Effimeria ( https://www.youtube.com/watch?v=ZcAZeDAkfiQ ). Poi, introdotti nel vivo del discorso da una breve introduzione curata dalla moderatrice Sophie Brunodet, i relatori Marina Sozzi, filosofa, bioeticista, tanatologa, e Giovanni Leghissa, ricercatore confermato presso l’Università degli Studi di Torino, hanno offerto ragionamenti e spunti di riflessione riguardo alle forme culturali attraverso cui l’uomo entra in rapporto con la morte. «Se è vero che la morte è un fatto ineluttabile – sottolinea Sozzi – è altrettanto vero che ne facciamo sempre esperienza attraverso i modi che ogni singola cultura ha elaborato per trattarla, ovvero le ritualità messe in campo per accompagnare l’elaborazione del lutto, rendere onore al defunto, riaffermare la vita. Non c’è cultura al mondo che abbia ignorato la morte è questo uno dei rari universali culturali esistenti, anche se ognuno ha creato i suoi propri rituali».

Se nella nostra società prevale la rimozione della morte, il suo allontanamento dal corso ordinario della vita – lasciandoci nei fatti impreparati e spaventati – nonché una giusta misura ammessa per l’espressione della tristezza, a Bali, vige invece il divieto assoluto di piangere per non ledere l’anima del defunto, mentre al Cairo ci si aspetta che la vedova pianga per sempre.

Mentre Sozzi afferma l’inefficienza consolatoria dell’approccio nostrano alla morte e rilancia la sfida alla quale la nostra società è oggi chiamata, ovvero quella di inventare nuovi riti, laici, condivisi, nel rispetto della multiculturalità contemporanea, Leghissa propone un’utopia post umana rispetto al tema.

Il filosofo invita a immaginare una comunità umana consapevole della propria animalità e che, a partire da qui, accetti e assuma la sua propria vulnerabilità costitutiva. «La morte – spiega – è una vera e propria dissonanza cognitiva per un’umanità abituata a considerarsi eterna. Di fronte al cadavere del suo prossimo, che smentisce inequivocabilmente ogni pretesa di onnipotenza, l’uomo ha sempre reagito costruendo miti per lo più strani, fantasiosi, inverosimili anche, ma in qualche modo efficaci. Oggi, epoca che ha visto le derive cui hanno condotto i culti della morte narrati dei totalitarismo del Novecento; epoca in cui religioni e mitologie improbabili hanno per lo più perso la loro forza persuasiva; ebbene, oggi forse è il tempo di prendere sul serio la nostra finitudine, senza sgomento e senza fughe in sogni di immortalità. E il punto di partenza è l’accettazione di ciò che già Darwin mostrò, ma che l’uomo non è mai stato capace di accettare, e cioè il suo essere animale tra gli animali».

Dunque, passando per vie differenti, Sozzi e Leghissa sono concordi nell’affermare che è tempo di pensare a nuovi rituali per affrontare lo spaesamento in cui ancora oggi ci lascia la morte, partendo dalla constatazione che non siamo al centro del mondo, che la vita ha una fine, e va bene così.

L’incontro si è chiuso con una performance preparata ad hoc da Angela Rottensteiner e Silvia Ribero e giocata sul filo dell’ambiguità. Come è nello stile del collettivo, che ama calare il teatro nelle situazioni concrete e abbattere la distanza scena­platea, le attrici si sono mescolate al pubblico e da lì hanno iniziato a dare voce al possibile scetticismo di una persona qualunque, sofferente per un lutto e insofferente difronte a tante teorie.

Con simpatia, leggerezza, canti e letture dal Piccolo Principe, la performance ha dato spazio alle emozioni, suggerendo che, così come è necessario il silenzio perché ci possa essere musica, così accettare di confrontarsi con l’esperienza del limite è importante per rilanciare la vita stessa.

Opinioni