Marino Niola, «Il cibo è vissuto sempre più come penitenza»

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Marino Niola è uno degli antropologi italiani che più si sta dedicando al tema dell’alimentazione. Wikipedia lo presenta come professore di Antropologia dei simboli, Antropologia delle arti e della performance, Miti e riti della gastronomia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. Nel 2007 ha ideato, in qualità di coordinatore scientifico, il primo master in Comunicazione multimediale dell’enogastronomia sempre presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa.

Tra i suoi innumerevoli lavori Totem e Ragù. Divagazioni napoletane, del 2003; Don Giovanni e o della seduzione del 2006; Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina, del 2009; Non tutto fa brodo del 2012; Miti d’oggi sempre del 2012 e l’ultimo, Hashtag. Cronache da un paese connesso, che sarà presentato anche al Salone del gusto di Torino.

Ma, subito dopo, a novembre, è di nuovo tempo per un nuovo libro, Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari dove Niola paragona le moderne “religioni del cibo” agli asceti padri della Chiesa del periodo anacoretico, quando stare nel deserto serviva a non contaminarsi con le impurità del mondo. Un po’ come oggi accade per certe scelte alimentari vegetariane, fruttariane, crudiste, che per Niola sanno tanto di tentativi di moderna purificazione. Dei linfodrenaggi dell’anima, degli agriturismi dello spirito.

Proprio per questo suo interesse di ricerca su come l’Uomo si rappresenta attraverso ciò che mangia Marino Niola parlerà a Pensare il Cibo, l’8 novembre, nella serata dedicata alle paure della contemporaneità che finiscono nel piatto.

Un altro intellettuale folgorato sulla via del cibo?

Per un antropologo, indagare il rapporto contemporaneo tra Uomo e cibo è quasi una cosa ovvia: quello della rappresentazione del sé individuale e collettivo attraverso il cibo è uno dei temi classici dell’antropologia. Ma oggi, un tema così indagato può fornirci chiavi di lettura sulla contemporaneità, come e  più di altri ambiti umani.

«Il cibo – spiega Niola – è sempre stato, in fin dei conti, anche il linguaggio basico che nelle comunità umane esprime identità e differenza. Pensiamo a come si sono differenziate anche le grandi religioni monoteiste, dall’onnivorismo cristiano richiamato da San Paolo che dice: “nessuno vi separi in base a quel che mangiate e a quel che bevete”, fino ai rigorosi precetti alimentari kasher e halal. Studiare il rapporto Uomo-Cibo ci permette di alzare una cortina su tutto ciò che la storia tradizionale ci fa vedere con molta più difficoltà. E scopriamo che l’Uomo non è solo “testa”, come vorrebbe la nostra cultura di matrice idealistica ma è anche corpo, cioè desideri, appetiti, passioni, ossessioni».

Il cibo non si può dunque separare dalla piacevolezza del gusto, dall’appagamento di palato e olfatto, la pancia deve poter parlare alla testa.

«L’alimentazione umana non è solo nutrizione, ed è quello che non sempre i nutrizionisti riescono a capire. Per loro è tutta una questione di nutrienti, di equilibrio calorico e di salute. Ma l’alimentazione umana non è solo nutrizione. È piacere, desiderio, voglia, entusiasmo, conoscenza, convivialità, scambio. Nella semplice nutrizione c’è una sorta di demonizzazione del desiderio, una ricerca di mortificazione della carne a cui assistiamo in una società che forse è stata troppo frettolosamente scristianizzata senza essere davvero secolarizzata e che va a cercare in tante nuove fedi fai da te una disciplina che è insieme del corpo e dell’anima. E spesso fa cortocircuitare salute e salvezza. ».

Una società che sta perdendo il senso del piacere legato al cibo, anzi, sta concentrando proprio nel piatto tutte le sue ansie.

La tesi di Niola è che in questo mondo spaventato e oppresso dall’incertezza per il futuro, per paura, stiamo cercando inutilmente di diventare una società di aspiranti asceti.

«Quando certa scienza vuole legittimare in maniera dogmatica l’uso degli Ogm o quando un oncologo spiega che non si deve mangiare il vivente ci troviamo di fronte a una sorta di forzatura dei saperi  medico-scientifici. Con  la scienza che sconfina nell’etica scendendo su posizioni che dimostrano quanto stiamo pensando al cibo come a un mezzo per esorcizzare le nostre paure e di come nel cibo cerchiamo quasi una purificazione dell’anima».

Eppure mai come oggi si parla soprattutto di cibo cucinato. Tv e giornali sono piene di ricette, i nuovi chef-star spuntano dappertutto.

«È vero stiamo assistendo a una vera esplosione di cibomania, ma proprio perché nel cibo riponiamo tensioni e paure. Perché il cibo è l’interfaccia tra il corpo e un mondo sempre più difficile da capire. Immaginiamo che la realtà sia piena di pericoli; siamo immersi in una grande paura contemporanea che ha troppe facce. E allora appendiamo al gancio alimentare le nostre paure senza nome e trattiamo quello che mangiamo come la coperta di Linus».

Così è cambiato il modo di approcciarci al cibo. Cerchiamo un’alimentazione che sottrae invece di aggiungere e che non è più finalizzata al piacere.

«Nel cibo vediamo il pericolo della contaminazione della nostra purezza, abbiamo il mito della leggerezza, una leggerezza che superi il peso e i limiti del corpo. Così alle interiora preferiamo l’interiorità e alle animelle l’anima. Vogliamo essere assolti dai peccati di gola. E, come è sempre stato, ci identifichiamo in quello che mangiamo, apparteniamo a moderne tribù alimentari che sembrano comunità di monaci ma caratterizzate da un fighettismo alimentare spaventoso. E in queste scelte identitarie – Pierre Bourdieu le chiamava pratiche di distinzione – prevale la sottrazione. Oggi l’Uomo non è più quel che mangia ma ciò che non mangia.  L’opposto dei nostri genitori e della loro alimentazione da miracolo economico che era tutta un’addizione. Di burri, di panne, di vitamine, di glutine, e chi più ne ha più ne metta. Mentre noi al nostro cibo chiediamo soprattutto di essere senza qualcosa, abbiamo fame di mortificazione. Dove in un approccio penitenziale l’etica viene diventa dietetica, in un cortocircuito tra purificazione e depurazione, alleggerimento del corpo e drenaggio dell’anima, fibra alimentare e fibra morale. La differenza è che i nostri genitori e nonni avevano fame di vita. Mentre noi della vita abbiamo paura.

E il professor Niola che rapporto ha con il cibo?

«Io amo il cibo. Amo scegliere gli ingredienti e cucinare. Con mia moglie (Elisabetta Moro, antropologa che ha dedicato il suo ultimo lavoro alla dieta mediterranea ndr) amiamo andare in giro per tour gastronomici alla ricerca di esperienze sempre nuove».

E già che c’è, finita l’intervista, l’antropologo napoletano a casa si cimenta con spaghetti alla chitarra cosparsi di un sugo di carne macinata, aglio olio e rosmarino accompagnati da un buon vino. Qui, di penitenze nemmeno l’ombra.

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