la decrescita secondo Latouche: “Ritrovare l’intimità con la terra”

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Di  Alessandro Carrieri

 

Secondo Serge Latouche, economista e filosofo francese, noto per essere uno dei principali fautori delle teorie della decrescita, l’attuale crisi economica, in tutta la sua drammaticità, rappresenta un’importante opportunità.

La crisi, per Latouche, serve a stimolare le coscienze individuali a un’accurata riflessione circa le proprie abitudini, nonché un potenziale catalizzatore per un programma di decolonizzazione dell’immaginario collettivo, mirato a sfatare il mito del progresso e della crescita economica e alla comprensione del fatto che «è la crescita stessa ad essere funzione della disuguaglianza» (Baudrillard 1976, 45) e che l’intera nostra società è articolata su di una dialettica profondamente difettosa – che non conosce risoluzione o superamento – un’oscillazione infinita tra abbondanza e penuria, tra il consumo e la morte.

L’economia, secondo il filosofo, è una religione, da cui bisogna al più presto uscire, che «trasforma l’abbondanza naturale in scarsità attraverso la creazione artificiale della mancanza e del bisogno, il che porta a sua volta all’appropriazione della natura e alla sua mercificazione» (Latouche 2011, 94);
essa non sarebbe nient’ altro, dunque, che «un’invenzione storica» (Id., 2005, 137) e il processo di mondializzazione che ne scaturisce, di conseguenza, non può che provocare profonde disuguaglianze, polarizzando la ricchezza; infatti «non soltanto l’immaginario economico inventa di sana pianta la scarsità, ma la povertà stessa diventa una condizione di crescita» (ivi, 66).

Occorre, secondo Latouche, abbandonare l’errata convinzione che ci porta a considerare l’accrescimento illimitato una cosa buona in sé, e che veicola l’idea che la produzione di merci e beni di consumo, di qualunque natura, debba necessariamente avere la priorità sull’organizzazione politica e sui beni relazionali.

La tecnicizzazione del mondo è inscindibile dall’invenzione dell’economia e dalla sua progressiva istituzione nell’immaginario collettivo, che le attribuisce un’origine naturale, se non addirittura sovrannaturale – una processione necessaria del fato, essa rappresenterebbe il destino stesso dell’uomo, che in essa trova la sua vocazione terrena: il compito assegnatoli da Dio.

Al contrario, occorre prendere coscienza del «binomio infernale scarsità/abbondanza, che è urgente decostruire» (Id. 2011, 93), e ridefinire alla radice il rapporto tra produzione e consumo, poiché l’incantamento prodotto dall’idea fraudolenta dello sviluppo e della crescita illimitata è ormai in frantumi. Infatti, se «è vero che il giacimento delle parole è inesauribile, […] il suo sfruttamento non può sostituirsi all’infinito a quello delle risorse naturali in via di esaurimento» (ivi, 45), non è semplicemente pensabile una crescita infinita con risorse finite.

La «pauperizzazione psicologica» (Baudrillard 1976, 83) derivata dall’asincronia tra i ritmi di produzione dei beni e dei bisogni, quello «stato di insoddisfazione generalizzata» (Latouche, 2011, 54), tipica della società dei consumi, lascia scorgere la profonda antinomia tra la crescita formale e l’abbondanza reale, che risultano del tutto inconciliabili. Il razionalismo della società opulenta pensa solo in termini di utilità ed efficienza, e per questo è auspicabile, secondo Latouche, un “ritorno al ragionevole” ovvero al dominio della ragione speculativa-deliberativa, su quella scientifico-strumentale; l’inversione di mezzi e fini, infatti, è la causa principale della scomparsa del senso e della totale assenza di valori riscontrabili nella società opulenta. Poiché l’economia e la tecnica si sono emancipate progressivamente dal sociale, fino ad abolirne lo statuto, occorre che il sociale faccia altrettanto con la razionalità tecno-strumentale. Gli obblighi e le prescrizioni che gravano sul governante, sul produttore, sullo scienziato e sul consumatore, provocano, infatti, la definitiva e generalizzata rinuncia a qualunque considerazione etica, a qualunque analisi critica; in questo modo «l’uomo moderno è infinitamente meno autonomo e capace di risolvere da solo i propri problemi del suo antenato del Neolitico» (Id. 1995, 50).

Di fronte alle conseguenze del sistema dei consumi, di fronte all’onnipotenza del mercato, è necessario ripensare, e desiderare, una realtà non più dominata dai meri valori economici, «in cui l’economia viene rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo» (Id. 2011, 138). Occorre, attraverso una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario, «procedere ad un reincantamento del mondo» (Id. 2013, 112), abbandonando definitivamente l’insensato perseguimento della crescita per la crescita, il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte di chi detiene il capitale, prendendo coscienza dei danni provocati dallo sviluppo e del fatto che l’economia non è, come comunemente ritenuto, l’unico mezzo per sconfiggere la povertà e la necessità, ma ne è, piuttosto, la causa più profonda. Per sopravvivere occorre dunque «organizzare il dopo sviluppo» (Id. 1995, 84), non è sufficiente limitarsi a moderare le attuali tendenze e gli attuali ritmi di produzione; occorre cambiare radicalmente rotta e uscire dallo sviluppo e dall’economia, e per fare ciò bisogna che tutti, equanimemente, si impegnino a praticare un «disarmo culturale» (ivi, sg.); occorre, non in ultimo, decolonizzare la nostra mentalità dall’«onnimercificazione del mondo» (ibidem), epurandola da quell’incapacità endemica di concepire un’ altra realtà, un’altra società.

E’ evidente, e chi non lo ammette «rivela o una grande ingenuità o una grande doppiezza», che l’uscita dall’economia, proposta dalle teorie della decrescita, non implica una regressione nella barbarie e nell’inciviltà, come vorrebbero i detrattori della decrescita, ma semplicemente l’introduzione della possibilità, assolutamente concreta, di una società non salariale, non dominata dal denaro, dal mercato e dall’ossessione della crescita.

La proposta di una via di uscita positiva dal delirio produttivista e dei consumi, si concretizza nella realizzazione utopica di una società «autonoma, democratica ed ecologica: la società della decrescita» (Latouche 2011, 52).

Capire come attuare tale proposta, è la grande sfida filosofica dei nostri tempi, poiché tale colonizzazione avviene, secondo Latouche, già dalla più tenera età, tra le mura delle stesse istituzioni scolastiche: «la maggioranza delle persone […] impara nella scuola non soltanto l’accettazione del proprio destino, ma anche il servilismo».[1] Quello della decolonizzazione è un processo lungo e faticoso, che richiede una pazienza stoica, e tuttavia va attuato con quanta più urgenza, prima che sia troppo tardi; tale processo, per le radicali trasformazioni cui ambisce, può a pieno titolo definirsi “rivoluzionario”. «L’aberrazione di una razionalità mossa dalla ricerca senza limiti del profitto produce catastrofi che, sebbene dolorose, creano occasioni per la messa in discussione dello stato di cose esistente» (Id. 1995, 97), stimolando quel cambiamento dell’immaginario propedeutico all’instaurazione della società dell’«opulenza frugale» (ivi, 23).

Occorre, cioè, che al centro della vita umana siano posti significati differenti dall’accumulazione e dal consumo di beni, diversi dall’espansione della produzione e dalla ricerca del profitto, che sia abbandonata l’idea, assurda, che il solo ed unico scopo della vita umana sia produrre e consumare sempre di più; «lavori per comprarti la macchina per andare a lavoro»[2]

La via della decrescita è un’utopia, una visione ideale e immaginaria, un’affermazione che si pone come antidoto alle antinomie del presente, alle sue negatività, alle sue aberrazioni, ma anche una provocazione e uno stimolo a ripensare le proprie abitudini: «la decrescita è un’arte di vivere» (Id. 2011, 189), l’arte di vivere bene, un esercizio di emancipazione dall’artificializzazione del mondo e dal dominio di quella tecnocrazia anonima, rea di aver spogliato l’uomo di qualsiasi identità storica, di ogni dignità ontologica, di averlo privato del suo interieur, saturandolo con l’attesa messianica del sempre uguale.

«La decrescita in realtà dovrebbe essere realizzata non soltanto per preservare l’ambiente, ma anche, e forse soprattutto, per ristabilire un minimo di giustizia sociale, senza il quale il pianeta è condannato all’esplosione» (Id. 1995, 76).

Bisogna saper ritrovare l’intimità con la terra e con l’ambiente, con la nostra dimensione originaria e archetipa, una dimensione di coesistenza e cura reciproca, non più piegata alle logiche del dominio tecnico della natura e del suo sfruttamento illimitato, e con ciò ritrovare anche se stessi; infatti, «l’emancipazione attraverso la tecnoscienza è una falsa emancipazione, ci mette in contrasto con la madre terra e rivela un rifiuto della realtà» (Id. 2011, 190).

 

BIBLIOGRAFIA

 

-Baudrillard, Jean, La società dei consumi, Il Mulino, Bologna 1976.

-Latouche, Serge, La megamacchina, Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

-Id., Come sopravvivere allo sviluppo, Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

-Id., Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

-Id., Usa e getta, Le follie dell’obsolescenza programmata, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

 

 

[1] Ivan Illich, L’enseignement: une vaine enterprise, in Œuvres complètes, vol. I, pp. 135, cit. in Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, p. 94.

 

[2] Così recita una scritta anonima, apparsa su un passante ferroviario nel torinese.

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