Cavallo, «per fermare gli sprechi alimentari basta imparare dalla Natura»

Roberto Cavallo (con il microfono) a CinemaAmbiente

Roberto Cavallo, Ad di Erica, cooperativa nata proprio per promuovere progetti di riduzione dei rifiuti e del riuso è un personaggio conosciutissimo in campo ambientale.

Sarà lui a moderare il dibattito tra il filosofo torinese Federico Vercellone e il teologo cremonese Bruno Bignami, la sera del 7 novembre al Borgo Medievale del Valentino a Torino proprio sul tema degli sprechi alimentari nella società dell’abbondanza.

Cavallo è anche Presidente Aica (associazione internazionale comunicazione ambientale: envi.info), vicepresidente Acr+ (Associazione Città e Regioni per il Riciclo e l’uso sostenibile delle Risorse – Bruxelles), Vicepresidente del Comitato tecnico per l’attuazione del Piano nazionale di Prevenzione dei rifiuti presso il Ministero dell’Ambiente e membro del Comitato tecnico scientifico International Solid waste association (Iswa).

Gli sprechi alimentari hanno tante ragioni.

Lo scandalo è vecchio quanto la società dei consumi, cioè la moderna società occidentale, che ancora oggi guarda dall’alto in basso le società dove le persone di cibo quasi non ne hanno per sfamarsi.

Nel nostro sistema basato sul profitto, lo spreco alimentare è distribuito lungo tutta la catena produttiva: dal campo alla tavola. Secondo alcuni dati Istat ed elaborazioni di Andrea Segré e del suo staff si lasciano in campo percentuali dal 2% di frutta al 12-13% di ortaggi in serra. La somma, sempre secondo l’Istat, di queste percentuali è di poco meno di 18 milioni di tonnellate (dato 2009), pari a orca il 3,3% della quantità totale prodotta.

«In realtà a mio avviso – osserva Cavallo – tale quantità è ancora sottostimata penso all’uva da vino non registrata perché eccedente la quantità massima prevista dai disciplinari delle denominazioni d’origine o le quantità di coltivazioni di agricoltori non iscritti alle organizzazioni di categoria.

Se si considerano le sole eccedenze dell’ortofrutta, pari a circa 7 milioni di tonnellate, e le si confrontano con le quantità consumati in Italia attorno alle 8 tonnellate e mezza il livello di spreco appare evidente e anche un po’ raccapricciante».

Ma a parte i meccanismi folli di mercato perché non siamo più capaci di riciclare il cibo?

«Prima di riciclare parlerei di non sprecare. Il modello economico, basato sul controllo dei prezzi su base globale e il livello di benessere e poter d’acquisto fanno si che non ci si scandalizzi se si vede un albero di frutta non raccolta e lasciata al terreno o un blister di alimenti ancora confezionati gettati in un contenitore di rifiuti. C’è dunque un’assuefazione morale creatasi nel giro di meno di due generazioni alimentata da “ritornelli” secondo i quali lo spreco fa rima con abbondanza e benessere.

Il cibo si ricicla da sé, torna naturalmente nei cicli del Carbonio o dell’Azoto, anche senza raccolta differenziata o impianti di compostaggio, ciò che dobbiamo dunque chiederci è quanto ci perdiamo noi! Ecco, non siamo più capaci di sorprenderci e di farci domande e quindi anche di trovare le risposte: per questo sprechiamo cibo».

La crisi, comunque ci sta cambiando e sta abbattendo gli sprechi…

«In parte sì, per alcuni comparti come alcuni beni durevoli (mobili grandi elettrodomestici e in parte il cibo sì. Per altri purtroppo è esattamente il contrario. La crisi acuisce anche l’atteggiamento compulsivo che è dentro di noi così siamo più attratti dai 3×2, dai 9,99 che spesso sono beni prodotti con materiali di scarto realizzati con procedure non ecologicamente corrette destinati a diventare rifiuti dopo pochi utilizzi: dai vestiti ai piccoli elettrodomestici».

E proprio a fare più le “formiche” chissà quanto potremmo risparmiare…

«Continuando nella filiera, dopo il campo viene il condizionamento: secondo stime ISTAT ed elaborazioni sempre di Andrea Segré e collaboratori, gli sprechi vanno dall’1,5% delle granaglie al 2% delle bevande al 2,5% per prodotti a base di carne, al 3% dell’industria lattiero casearia, al 3,5% del pesce fino al 4,5% dell’ortofrutta, per un totale di poco meno di 2 milioni di tonnellate, pari al 2,6% di media di spreco. A questi vanno aggiunti gli sprechi nella distribuzione tra la GDO e il piccolo commercio per una quantità stimata dal Last Minute Market in oltre 250mila tonnellate (sempre dati 2009), per un valore commerciale di quasi un miliardo di euro; e alla fine c’è lo spreco in casa che secondo dati Adoc (Associazione difesa ed orientamento dei consumatori) va dal 3% di surgelati e scatolame al 10% di affettati e terza gamma, al 16% di frutta e verdura al 19% di pane fino ad un 35% dei prodotti freschi come mozzarelle, yogurt, carne, ecc.) per un valore complessivo di circa 500 euro per famiglia all’anno. Secondo dati che ho riportano nel mio libro “Meno 100 chili, ricette per la dieta della nostra pattumiera”, gli sprechi nella distribuzione sono ancora più alti e possono superare il milione di tonnellate. Dalle analisi della cooperativa Erica sulla base di valutazione della composizione delle pattumiere degli italiani possiamo considerare una quantità di cibo sprecata, prima del consumo, non quello lasciato nei piatti per intenderci, pari a 35-45 kg per abitante all’anno, per una quantità complessiva attorno ai 2,5 milioni di tonnellate».

Ma in una concezione di società dove ogni governo invita gli italiani a consumare di più per “fare ripartire l’economia” esistono vere politiche contro gli sprechi alimentari o soltanto banali iniziative di sensibilizzazione che “fanno figo e non impegnano”?

«Sì, esistono politiche contro gli sprechi. La più nota è la cosiddetta legge del Buon Samaritano (155/2003) legge che andrebbe imitata anche per la sua sintesi (un solo articolo) e che permette il recupero di derrate alimentare ancora edibili per fini caritatevoli. Grazie a questa legge molte decine di migliaia di tonnellate sono state avviate a consumo.

Il tavolo sugli sprechi alimentari Pinpas coordinato dal professor Segré sta oggi cercando di definire un quadro normativo che snellisca le procedure burocratiche e che permetta un pronto riutilizzo degli scarti oltre a diminuirne la quantità.

Oggi, forse, grazie proprio alla crisi, si sta facendo molto, ben oltre la semplice sensibilizzazione pur fondamentale».

Lo spreco quando diventa rifiuto è davvero trasformabile in un concetto positivo come “una risorsa agroindustriale” (magari compost) o è solo un costo e un problema che andrebbe evitato comunque? Cioè il cibo scartato potrebbe dare vita a una vera filiera o è comunque meglio non sprecare?

«Lo spreco è spreco e va evitato, questo deve essere il leit motiv di qualunque politica e processo produttivo e di consumo. Se poi ci sono scarti di filiera e di processo (penso all’ortofrutta irrimediabilmente danneggiata o a avanzi di cibo post consumo ecc.) allora si possono mettere in atto politiche di recupero di materia e i prodotti biodegradabili sono in più semplici da trattare perché la natura ci ha insegnato e ci insegna esattamente come fare: basta copiarla».

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