Biancone, «L’economia non è nemica delle religioni. Se vuole soddisfare i bisogni primari deve essere attenta a quello che gli uomini sentono»

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Di Massimiliano Borgia

 

Domani 25 ottobre, Pensare il Cibo apre con il dibattito dedicato al rapporto tra cibo e religione. Insieme al teologo cattolico e all’imam musulmano ci sarà la figura dell’economista, a rappresentare la disciplina che tutti chiamano in causa quando si parla di fare i conti con la società secolarizzate dove a prevalere sono sempre gli interessi dei mercati.

Questa figura sarà rappresentata dal professor Paolo Biancone che nel Dipartimento di management dell’Università di Torino manda avanti il rapporto con il mondo finanziario islamico e con i mercati dei Paesi musulmani dove, sul cibo, è necessario, sempre, rispettare i precisi precetti del Corano. Biancone è stato di recente a Dubai con una delegazione torinese guidata dalla sindaca Chiara Appendino proprio a discutere come stringere relazioni sempre più forti tra il sistema economico torinese e i mercati islamici dive il cibo made in Italy è un autentico mito… da consumare, rigorosamente in versione halal.

Professor Biancone, allora c’è un’economia occidentale che si sta interessando sempre più alla religione, partendo dal cibo?

«Con l’aumento delle immigrazioni da parte dei popoli musulmani in sud Europa, a partire dagli anni ’90 c’è stata una maggiore apertura da parte dell’economia occidentale nei confronti delle loro richieste e abitudini. Ciò ha comportato una maggiore integrazione tra culture e religioni che sono sconfinate anche nel mondo enogastronomico.

A un primo sguardo sembra strano, ma sono soprattutto le seconde generazioni, i figli dei primi immigrati, ad essere molto legate alla tradizioni alimentari del contesto religioso a cui sentono di appartenere. Una platea di consumatori molto ampia che spinge produttori e distribuzione ad avere una maggiore attenzione alle richieste culturali e religiose differenti dalle nostre. Tra l’altro, non stiamo parlando solo di tradizioni musulmane ma, per esempio, anche ebraiche. Un caso lampante è quello della salsiccia di Bra, riconosciuta come piemontese al 100 per cento ma in realtà non è fatta con carne di maiale proprio per la grande influenza della comunità ebraica esistente vicino a Bra».

Quindi il settore alimentare fa da ponte per avvicinare l’economia alle religioni che hanno forti precetti alimentari?

«Oggi l’economia non è solo più chiamata a soddisfare i bisogni primari dell’uomo, vale in tutti i campi ma vale ancora di più in qual campo che sembrerebbe quello più statico: quello alimentare. Invece, anche nel settore, che oggi chiamiamo del food, non si tratta solo più di “vendere cose da mangiare” ma sempre più spesso ci si confronta con richieste che vanno oltre il semplice aspetto materiale del nutrirsi per vivere e per il piacere del palato. Oggi, l’economia alimentare, soprattutto quella del made in Italy deve fare i conti con i significati attribuiti al cibo da culture diverse dalla quella occidentale e prevalente, sia dal punto di vista etico (per chi, per esempio, rifiuta alimenti di origine animale) che quello religioso (come per le richieste di cibo Kosher e halal).

L’economia quando si avvicina ai mercati “religiosi” ed etici riesce a incuriosirsi sui temi del pensiero e della riflessione sul senso della vita e diventare una disciplina meno fredda? Si potrà mai arrivare a un’economia davvero “etica”? Oppure filosofia, religione, etica devono restare rigorosamente separate dall’economia?

«Parlare di economia è anche parlare di bisogni degli individui da soddisfare in un contesto di risorse scarse. Di per sé, quindi, non si tratta di una “disciplina fredda”, ma di una scienza che studia e stimola il mercato per soddisfare il bisogno degli individui, si tratta quindi di una scienza positiva, come si usa dire ora, “problem solving”. I principi etici e religiosi entrano in economia nei meccanismi di regolamentazione del mercato e nel condizionamento dei bisogni stessi. Nel campo del food, per esempio, la produzione e la commercializzazione di cibo di valore etico/religioso risponde a un bisogno culturale, religioso e dà, al tempo stesso, alle aziende possibilità di innovarsi, di aprirsi a nuove opportunità di business. L’azienda di per sé è un sistema economico, perché soddisfa bisogni; sociale, perché fatta da uomini; aperta, perché in relazione con l’esterno; dinamica, perché risponde alle sollecitazioni del mercato, che, a volte, contribuisce a determinare. Non può, quindi, mai prescindere anche dalle influenze religiose, culturali, filosofiche, ma anche giuridiche che caratterizzano il mercato e l’ambiente in cui opera. Anche se non sempre evidente, il rapporto azienda/principi etici è di osmosi perenne».

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