Segatti, «Il cristiano è libero, non ha bisogno di divieti alimentari per sentirsi vicino a Dio»

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Di Massimiliano Borgia

Ermis Segatti, conosciuto da generazioni di studenti come “don” Ermis, è da sempre grande conoscitore delle culture religiose del medio Oriente. Sarà ospite martedì 25 ottobre a Pensare il Cibo nel dibattito su Cristianesimo e Islam di fronte ai precetti alimentari e di fronte alla società del mercato e del consumo.

La storia di Segatti vanta un lungo contatto con i giovani, quando era professore di lettere al liceo Darwin di Rivoli (TO) ma la sua figura è legata al rapporto con le religioni “a Est del cattolicesimo”. Come recita Wikipedia, è docente di Storia del cristianesimo e di teologie extraeuropee presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. È stato referente fino al 2012 dell’Arcidiocesi di Torino per l’Università e la cultura. Dall’anno accademico 2014-2015 è insegnante di questioni di teologia morale e pratica presso l’Università cattolica del Sacro Cuore.

Professor Segatti oggi, parlando di rapporto con il cibo, sembra che la grande differenza tra Cristianesimo e Islam stia nella forte precettistica alimentare della religione islamica. Ma qual è il senso di un precetto di comportamento, nella prospettiva cristiana? Si dà una differenza rispetto all’Islam?

«In realtà, in questo discorso, manca un terzo soggetto: l’Ebraismo. È con la frattura Cristianesimo-Ebraismo che si è differenziata anche la precettistica in campo alimentare che oggi è praticamente assente tra i cristiani. Dobbiamo ricordare che, nel Primo Testamento, i precetti alimentari sono molto forti. Ma nel primo vero Concilio, quello di Gerusalemme, quando ancora erano vivi Pietro e Paolo, nel Cristianesimo vince la scelta di campo che vuole superare sia l’obbligo della circoncisione che gli obblighi alimentari precedenti, per sancire la rottura con l’antica tradizione ebraica. Nel Primo Testamento ci sono molti precetti sul cibo e su come mangiare, ma la nuova tradizione Cristiana, che si va formando attraverso il resoconto degli insegnamenti di Gesù nel Nuovo Testamento e con le lettere degli apostoli, considera il Vecchio come un testo preparatorio al Messia».

Esiste quindi anche una cesura alimentare tra Vecchio e Nuovo Testamento?

«Sulle “leggi del cibo” la cesura è basata sulla considerazione che la “legge” serve alla “preparazione” del cristiano, ma, da sola, non è sufficiente per la Salvezza. In questo modo i precetti alimentari diventano un capitolo sciolto. C’è, a questo proposito, un passaggio in una lettera di San Paolo a Timoteo che riprende il principio della Genesi in cui le cose create sono “cose buone”, “cose giuste” e fatte bene, per arrivare al principio che anche il cibo è “cosa buona e giusta” basta rendere grazie a Dio. Compreso il bere un po’ di vino che San Paolo consiglia di bere senza problema alcuno. L’idea è dunque quella di adoperare bene le cose della Creazione. Semmai rimane il precetto, contenuto nella prima lettera enciclica ai Cristiani, che non si debba consumare la carne dei sacrifici offerti agli idoli. Ma è un precetto per eliminare ogni possibile contaminazione con il Paganesimo e l’idolatria: resisteva, infatti, la tradizione di sacrificare animali di cui il sacerdote pagano si cibava e che venivano poi ceduti a chi assisteva ai sacrifici. Un altro precetto è quello di non consumare sangue, perché nel primo Cristianesimo sopravviveva l’idea che l’anima risiedesse nel sangue e perché il sangue andava rispettato come simbolo primo della Vita. In queste indicazioni, tra l’altro, non si può per nulla leggere un ipotetico divieto di mangiare carne, ma solo una lotta al Paganesimo e un rispetto per la Vita umana. Nulla a che fare con il precetto, per esempio dell’Ebraismo o, poi, dell’Islam, che vieta di mangiare certe carni tra cui quella di maiale. Questa indicazione ha certamente radici in una concezione della religione come di un insieme di leggi che vincolano senza scampo l’Uomo, anche dal punto di vista igienico-sanitario».

Eppure nel Cristianesimo, come nell’Islam, sono esistite tantissime indicazioni alimentari. Molti divieti, molte pratiche, ben precise, come l’obbligo di mangiare di magro in Quaresima o il venerdì…

«Sì, ma queste sono state “tradizioni”, magari poi anche codificate dalla Chiesa e fatte osservare dai parroci in ogni comunità, ma non sono riconducibili ai testi sacri. L’idea di fondo non è mai stata quella che uno dei tanti elementi creati da Dio non potesse diventare alimento per gli uomini. Gli obblighi dietetici del Cristianesimo sono sempre stati dettati dal “digiuno” cioè dalla penitenza e sono sottospecie culturali derivate dalla spinta al contenimento dell’eccesso delle passioni che compie un deciso balzo in avanti con il monachesimo comunitario. I movimenti monastici codificano regole interne di comportamento che sono norme etiche di controllo dei comportamenti che comprendono anche l’atteggiamento verso il mangiare e il bere. Siccome nel medioevo gran parte dei vescovi arriva dalle abbazie, i precetti degli ordini monastici entrano nella vita della Chiesa e passano nelle comunità dei credenti come obblighi. Ma momenti come la Quaresima o il venerdì erano votati ad atti alimentari considerati penitenziali. Non contenevano i concetti di puro e impuro. La differenza con l’Islam sta nel fatto che astenendoti dalle cose vietate da Dio (Allah) ti sottometti completamente a Dio. Prevedere dei precetti alimentari nei testi sacri significa chiedere al credente di compiere forme quotidiane di completa sottomissione a Dio».

Per il Cristianesimo nel rapporto con il cibo non c’è questa completa sottomissione a Dio?

«Il cibo è un elemento fortissimo della vita quotidiana delle persone. Il Cristianesimo è una religione che presuppone una scelta, una scelta libera dell’uomo. Gesù a proposito del cibo dice, più o meno, che ciò che entra dalla bocca finisce nella latrina e sparisce, mentre è ciò che esce dal cuore che inquina davvero le coscienze. Insomma, è un ribaltamento di fronte: Gesù afferma che non sono i precetti, le leggi, comprese quelle sul cibo che salvano l’Uomo, ma è il suo sentimento verso Dio. È questo il senso della “Buona novella”».

Tra i cattolici c’è anche chi dice che i musulmani hanno saputo mantenere le loro tradizioni. E che l’Occidente cristiano ha, invece, sacrificato le sue in nome di una società multiculturale…

«Diciamolo francamente, l’idea del digiuno era frutto di una spiritualità deviata imposta da una società clericalizzata. Il Cristianesimo ha forse depauperato un alone collettivo esorbitante ma, soprattutto, ha saputo fare i conti con la questione della libertà. Su questo tema l’Islam non c’è. Lo voglio sottolineare: il Cristianesimo si è spesso scontrato con la libertà (ricordo il Sillabo di Pio IX) ma è la religione che, oggi, nella modernità, non ha paura della libertà. Gli obblighi religiosi nel cibo finiscono per legittimare uno stato confessionale, mentre la sfida del Cristianesimo è valorizzare la libertà degli individui di aderire alla fede solo se lo vogliono».

Nella modernità, più che mai, nella testimonianza di fede si tratta di “fare la differenza”, di mostrare un diverso modo di vivere. Come si evita il rischio di una fede vissuta in modo identitario, per auto-affermarsi?

«Oggi i cristiani hanno la possibilità, per molto versi, straordinaria, di vivere in condizione di minoranza, una condizione favorevole che non deve essere confusa con le ovvietà a buon mercato che vogliono l’Occidente a tradizione cristiana. Oggi il cristiano fa i conti con una società dove prevalgono i mercati, altro che la contaminazione di altre religioni o culture. C’è quindi la possibilità di partire da qui, con un autentico esempio cristiano che non deve, però, nemmeno essere confuso con un’elite. E qui torna la differenza con l’Islam che ha una sua natura fortemente precettistica perché politica: Maometto era un profeta ma anche un leader politico».

L’economia deve, comunque, sempre più fare i conti con i mercati a sfondo etico e religioso soprattutto quando guarda ai mercati islamici. È possibile che l’economia si faccia davvero contaminare dalla religione e dall’etica?

«L’ha detto il Papa nella sua ultima enciclica: il mercato non ha l’ultima parola. Il mercato deve avere regole. Se vogliamo, il vero digiuno del cristiano, oggi, è da un mercato senza regole. Riguardo ai rapporti “alimentari” con l’Islam io non credo nell’idea pericolosa che siamo sempre noi a dovere accettare le regole degli altri per accoglierlo. Questa tolleranza diventa una forma di imperialismo: faccio cosa fai tu per dominarti. Invece, se io invito un musulmano a mangiare a casa mia metto sulla tavola anche il vino e la carne di maiale. Poi lui è libero di non bere il vino e non mangiare la carne di maiale. Io consento a lui di essere come vuole essere ma gli mostro come sono io e lui mi accetta per come sono. È questo il vero senso della tolleranza ed è questo il vero fine del convivio».

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