Le scuole della tradizione filosofica torinese

A Torino si è sviluppata nel corso del Novecento un’attività filosofica tra le più importanti in Italia. L’iniziativa di Pensare il cibo nel prossimo mese di novembre trova a Torino il più importante sfondo di provenienza.

Possiamo distinguere tre scuole tra i filosofi torinesi attivi tra gli anni ’30 e gli anni ’80 del secolo scorso.

La prima è quella neorazionalistica raccolta intorno alla “Rivista di filosofia”, impegnata per la costruzione di una ragione emancipativa e progressiva, secondo la tradizione dell’Illuminismo. È una ragione consapevole del tramonto della necessità nell’ordine del mondo e quindi nella conoscenza, secondo la lezione della metodologia scientifica del Novecento.

Appartengono a questo indirizzo Abbagnano, Geymonat, Bobbio, Pietro Chiodi; anche se Chiodi (1915-1970) rimase in fondo estraneo al dialogo con la scienza, rimanendo legato a Kant non già attraverso questioni di metodo scientifico, ma attraverso Heidegger, circa la questione della possibilità di un discorso sull’essere.

I neorazionalisti rifiutavano il discorso sull’essere (l’ontologia) come retaggio di una descrizione necessaria del mondo, e tentavano di sostituirgli una conoscenza intesa come procedimento operativo, come “tecnica” per risolvere problemi determinati.

Il recupero dell’universalità della ragione, che tutti si proponevano, avveniva poi per diverse vie: in virtù del carattere appellante e perciò sovrastorico della ragione, secondo l’indicazione di Nicola Abbagnano (1901-1990); oppure attraverso le relazioni storiche che le teorie mantengono tra di loro, secondo il percorso tracciato da Ludovico Geymonat (1908-1991); o ancora mediante l’istanza universale del consenso, secondo il tema centrale di Norberto Bobbio (1909-2004).

Questi i rispettivi tentativi dei filosofi della scuola neorazionalistica di evitare il convenzionalismo, secondo il quale a problemi determinati si risponde con strategie sì efficaci, ma arbitrarie, e senza validità universale.

L’ontologia, cioè il problema di un ordine delle cose, costituiva invece l’identità dei tre filosofi legati alla tradizione di Aristotele e San Tommaso: Mazzantini, Del Noce, Felice Balbo. Li accomunava non tanto l’affermazione di un ordine dell’essere cui corrispondere per adempiere al compito morale e al compito della conoscenza, quanto piuttosto lo sforzo di mostrare come la filosofia dell’essere non si riducesse a un sistema di formule che esaurisce la realtà.

Affermare che vi è un ordine intelligibile del mondo non equivale a chiudersi nell’immobilità e quindi nel passato, poiché quell’ordine “comprende” il movimento, nei due significati: lo racchiude in sé e lo può capire e spiegare.

In Carlo Mazzantini (1895-1971), l’ordine intelligibile del mondo “comprende” il movimento della vita, laddove per la modernità ciò che si può comprendere falsifica la vita, mostrando che essa è una menzogna.

In Augusto Del Noce (1910-1989), l’ordine intelligibile “comprende” la storia dell’Occidente, più a fondo di quanto non faccia l’interpretazione della modernità come un cammino necessario e progressivo verso il tramonto della trascendenza.

In Felice Balbo (1913-1964), l’ordine intelligibile ‘comprende’ la trasformazione del mondo, in cammino verso la propria realizzazione: Tommaso ‘comprende’ Marx.

La terza scuola torinese era rappresentata da Guzzo e Pareyson.

Augusto Guzzo (1894-1986) componeva l’istanza fondamentale dell’idealismo, che nulla sia “dato” a prescindere da un’iniziativa dell’intelligenza, con il realismo cristiano, secondo cui la verità non è una costruzione dell’intelligenza dell’uomo, ma un dono. Sicché la verità rivelata era per Guzzo un’iniziativa realizzata “originaria”, che richiamava e suscitava le iniziative degli uomini, realizzate in forme storiche proseguibili.

Foto università torino2Luigi Pareyson (1918-1991) conservava i riferimenti all’idealismo e al cristianesimo, applicandoli però ai problemi dell’esistenzialismo: ciò che era in gioco nell’iniziativa non era la realizzazione di forme storiche proseguibili, ma la realizzazione della persona e del senso del mondo. La nozione di libera possibilità dell’esistenza per un verso si confrontava con l’istanza della sua realizzazione e quindi con il rischio del fallimento; per l’altro apriva in seno all’essere della metafisica aristotelico-scolastica l’abisso della possibilità del fallimento: l’abisso della libertà.

Nel programma pareysoniano di una ontologia della libertà l’eredità dell’idealismo agiva come consapevolezza del carattere interpretativo della verità: il discorso sull’essere delle cose non può essere diretto, come se fosse oggetto di contemplazione immediata, poiché l’essere si dà solo nella mediazione dell’iniziativa (nell’interpretazione) dell’Uomo. Il realismo del cristianesimo era presente invece nella nozione di “realizzazioe della libertà”, secondo il nuovo inizio dell’esistenza raccontato nei Vangeli

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