Naso, “Una tradizione del cibo è sempre figlia di contatti tra popoli diversi”

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Di Massimiliano Borgia

Irma Naso è una dei massimi esperti italiani di alimentazione medievale. Sarà ospite di Pensare il Cibo nella serata di mercoledì 25 ottobre dedicata alla formazione delle tradizioni alimentari.

Docente di Storia medievale all’Università di Torino, la professoressa Naso è presidente del Comitato scientifico del Centro studi di storia dell’alimentazione e della cultura materiale dedicato al grande lavoro e all’archivio di Anna Maria Nada Patrone.

Una figura come la sua sarà molto utile per aiutare a capire come si formano una cultura e una tradizione alimentare.

«Gli usi alimentari – riflette Irma Naso – sono influenzati da numerosi fattori, tra i quali l’adattamento ambientale e geografico è soltanto uno di questi. Fondamentali sono i condizionamenti sociali, economici, religiosi, simbolici, oltre a quelli derivanti dalle forme del gusto e dalle mode gastronomiche; senza trascurare l’importanza dei codici dietetici, variamente coniugati e divulgati nelle diverse epoche storiche attraverso i trattati medici. Non secondario è poi il contributo dei media nel valorizzare e consolidare le “tradizioni” alimentari, persino quando si tratti di “invenzioni” recenti, come quella divenuta celebre della dieta mediterranea».

Quali sono gli esempi più eclatanti di culture alimentari che hanno rivoluzionato il modo di ottimizzare le risorse e hanno permesso le grandi trasformazioni sociali ed economiche?

«Utilizzerò un esempio tratto dalla storia oggetto dei miei studi, quella del Medioevo, un millennio particolarmente rappresentativo nel segnare cambiamenti radicali rispetto al passato nei sistemi alimentari delle popolazioni europee, in seguito al contatto con culture diverse. Una nuova identità alimentare deriva dall’incontro tra la civiltà classica e la civiltà germanica in seguito alle invasioni barbariche: la prima basata sulla triade pane, vino, olio, sublimata poi nella simbologia cristiana; la seconda su carne, birra, grassi animali. Questo modello alimentare ibrido  (sul quale opportunamente insistono gli storici dell’alimentazione medievale, a partire da Massimo Montanari) rappresenta uno dei fenomeni più interessanti nella storia della cultura alimentare dell’Occidente, tanto più che si accompagna a importanti trasformazioni dei sistemi di produzione e di consumo. L’economia romana tipicamente agraria e quella germanica, portatrice di usi legati alle diverse forme di sfruttamento della foresta, si integrano reciprocamente a formare un modello economico inedito e senza ritorno».

Qual è l’epoca che più ha visto la nascita di vere e proprie culture della preparazione del cibo?

«Ancora una volta è nel Medioevo che si colloca un’altra tappa a mio avviso particolarmente significativa nella storia dell’alimentazione e della cucina; ed è quando la “moderna categoria della pasta” muove i primi passi. Dall’età romana ai tempi moderni il prodotto di origine araba subisce una interessante evoluzione nel modo di preparazione: all’antica cottura della pasta fresca nel forno insieme al condimento si sostituisce la bollitura della pasta secca a lunga conservazione (già commercializzata dai mercanti genovesi almeno dal secolo XII e prodotta con modalità quasi “industriali” in alcune regioni del Mezzogiorno d’Italia a partire dal Quattrocento) condita con formaggio grattugiato e spezie polverizzate. L’abbinamento con la salsa di pomodoro si diffonde non prima degli anni venti dell’Ottocento, dopo che da quasi due secoli se ne era intensificato il consumo innanzitutto nel Napoletano, grazie a un incremento della produzione con tecniche più avanzate e ai prezzi più popolari».

E quella con le più grandi rivoluzioni nell’approvvigionamento e conservazione del cibo?

«A parte la vicenda dei prodotti giunti dal Nuovo Mondo, che tuttavia troveranno solo tardivamente un impiego nell’alimentazione umana, particolarmente emblematico è il caso delle spezie: importate in Europa da paesi esotici attraverso i grandi porti del Mediterraneo, negli ultimi secoli del Medioevo vengono commercializzate in un’ampia gamma di varietà, mai prima né dopo altrettanto articolata al di fuori delle cucine orientali. Come insegnano i ricettari tardomedievali, l’uso esorbitante delle spezie (alcune delle quali successivamente abbandonate) rappresenta la più evidente peculiarità dell’alta cucina: non già per nascondere l’afrore e il sapore di alimenti avariati, ma soprattutto per il significato simbolico di un prodotto socialmente esclusivo per la sua rarità e l’elevato prezzo di mercato. Né si può attribuire alle spezie un significativo ruolo nella conservazione dei cibi. Dopo le diverse tipologie di “conserva” già praticate nell’antichità (salagione ed essiccazione per carne e pesce, canditura in miele e zucchero per frutta e verdura), la stagionalità e le incognite dell’approvvigionamento alimentare potranno dirsi superate solo in tempi relativamente recenti, grazie a tecniche di conservazione fortemente innovative e più o meno rapidamente diffuse: dalla sterilizzazione per la conservazione ermetica, alla scatoletta e alle tecniche di refrigerazione».

Perché una cultura alimentare sopravvive a lungo e quali caratteristiche deve avere per passare indenne i secoli?

«Paradossalmente una cultura alimentare (e non solo) sopravvive a lungo quando non rimane uguale a se stessa, perché si ridefinisce di continuo in relazione alle trasformazioni della società che l’ha prodotta e soprattutto attraverso il contatto e il confronto con culture diverse. Una improbabile cultura alimentare che pretenda di mantenere inalterati i propri caratteri identitari, senza adattarli ai tempi e alle situazioni che incontra via via sul proprio cammino, finirebbe inevitabilmente per esaurirsi».

In un mondo dove non si trasmettono più “ricette di famiglia” ma dove esiste il melting pot del cibo, è utile guardare alla storia dell’alimentazione di un popolo o di un territorio? In che modo la Storia può aiutarci anche nel decidere cosa mangiare?

«Chi potrebbe mai pensare che la Storia maiuscola sia in grado di dispensare ‘consigli’ alimentari? Si tratta del campo di azione (non di rado abusivo e spesso abusato) dei numerosi soggetti più o meno titolati a farlo: non solo medici, nutrizionisti, dietisti, ma anche i vari mezzi di comunicazione e di divulgazione di cui dispone la società contemporanea, compresi i social network. Se c’è un possibile ‘uso’ della storia dell’alimentazione nell’orientare la scelta di cosa mangiare, questo potrebbe consistere nel funzionare da stimolo alla riflessione sulla complessità dell’attuale sistema alimentare e gastronomico, nel quale si confrontano e convivono culture e regimi alimentari di gruppi etnici diversi. Sapere, ad esempio, che il melting pot dei nostri giorni non rappresenta di per sé una novità potrebbe renderci più consapevoli di essere protagonisti di una profonda trasformazione nel modo di mangiare, nella tipologia dei cibi, nelle tecniche culinarie, nella struttura dei pasti, nelle forme di convivialità ecc. Una fase che sta conducendo oggi all’elaborazione di una nuova e diversa identità alimentare, con modalità e in un contesto senza precedenti: quello della globalizzazione».

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