Recalcati, l’amore reale contro il narcisismo

Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, Milano, Raffaello Cortina, 2014.

Massimo Recalcati anche in questo libro dà prova del suo coraggio. La sua tesi è inattuale, e come tale articola una critica della società contemporanea. Ma si tratta di una critica che colpisce alcuni dei capisaldi della stessa teoria critica della società, e del costume condiviso. Il libro vuole argomentare in difesa dell’amore che si vuole eterno, che resiste all’imperativo del Nuovo e all’appeal che il sex esercita proprio in quanto possibile novità. E poiché l’imperativo del Nuovo è anche il discorso del capitalista e della società del consumo, allora la difesa dell’amore eterno diventa il simbolo della critica della società contemporanea. Attraverso i misteri dell’amore durevole si impara a non essere consumisti, a non sottostare all’imperativo del costante passaggio ad altro e della moltiplicazione dissipativa del godimento. Recalcati vuole comporre il Nuovo con lo Stesso, affinché l’esperienza dell’amore che resiste alle crisi sia la rivelazione di una rinascita e di un godimento sempre rinnovati. Di qui, la centralità dell’esperienza della frattura, del tradimento, e della possibilità del perdono. Il perdono si pone al centro della tensione tra l’eternità dell’amore e la particolarità contingente del corpo, dell’evento, dell’incontro, del godimento. Il perdono vuole comporre l’amore con la singolarità accidentale e libera, e traccia il cammino verso la compenetrazione della legge universale con il godimento particolare, per attestare che è possibile un amore che duri e insieme sia fonte sempre risorgente di piacere fisico.

Due tesi psicoanalitiche insidiano questo tentativo di difendere l’amore che vuole durare in eterno. La prima è la convinzione freudiana che ogni amore sia un sogno narcisistico. Se ci innamoriamo di qualcuno è perché la sua figura completa in qualche modo la nostra, e ci gratifica, e diventa quindi funzionale a una migliore affermazione di noi stessi. La seconda tesi, ancora freudiana, afferma la scissione maschile tra l’amore e il godimento sessuale – le donne, com’è noto, vivono un godimento più complesso e meno feticistico-predatorio. Poiché il primo oggetto d’amore – la madre – è interdetto come oggetto di godimento sessuale, allora l’amore maschile sarebbe avviato a divergere in modo irrimediabile dalla pulsione sessuale, e la donna amata nella vita quotidiana non sarebbe mai la donna che attizza il maschio cacciatore.

Il passaggio notevole e coraggioso nell’argomentazione di Recalcati consiste nel far convergere queste due tesi freudiane in una acquisizione di fondo dell’umanismo di sinistra, cioè della cultura dalla quale lui stesso proviene. Che Recalcati non intende affatto rinnegare, ma piuttosto indurre a una radicale revisione, a proposito del falso mito dell’auto-generazione.

Chi è nato negli anni ’50 e ’60 sa quanto è stato pervasivo nella cultura occidentale questo messaggio: che siamo debitori della nostra esistenza a noi stessi; che siamo padroni di noi stessi, e quindi liberi e responsabili, nella misura in cui (era questo il feticcio espressivo) rinneghiamo ogni dipendenza, ogni debito, ogni costitutiva esposizione verso l’Altro. Ci veniva proposta in ogni salsa questa logica della corrispondenza nella misura: sono libero nella misura in cui non sono debitore ad altri. La negazione sessantottina dei padri, invece di sviluppare il passaggio teorico dall’autoritarismo all’autorevolezza, è stata distorta nel falso mito della liberazione da ogni debito. Poteva donare a questo Paese una crescita culturale immensa, e invece ha scelto l’allucinazione dell’auto-generazione. Questo mito ha rinsaldato le sbarre della prigione che ciascun umano costruisce a se stesso, intorno alla idolatria del sé e alle sue infinite auto-giustificazioni narcisistiche. Si annullava il debito per godere liberamente, proprio come oggi viene ancora proposto dalle posizioni antagoniste, per affrontare la crisi finanziaria. Era alla fine dei conti un armonicismo che portava allo scoperto la vena New Age nel giacimento delle nostre false liberazioni. Sono libero nella misura in cui la misura corrisponde a ogni lato del mio io, secondo una cifra simmetrica. Non c’è sbilanciamento, non c’è esposizione verso un Altro che mi fa perdere l’equilibrio. Mi possiedo interamente, in una appropriazione tanto più sicura quanto più vana. E invece, che noi non siamo debitori della nostra esistenza a noi stessi è il fatto più certo della nostra esperienza.

Così abbiamo stretto un pugno di mosche, nelle nostre posizioni individuali come in quelle politiche. Quell’armonia cosmica che avevamo vissuto nell’esperienza dell’LSD era la misura perfetta per una società liberata dai conflitti, nella quale la forma dell’ordinamento poteva finalmente corrispondere a se stessa, cioè a me stesso e al mio viaggio. Vi corrisponde nella misura in cui tutti gli individui, e perché no gli animali, anzi gli esseri viventi, e quindi anche le piante, mi si disvelano come elementi di un conto che alla fine torna sempre, di un’eterna ghirlanda brillante nella quale mi posso rispecchiare infinitamente – se non fosse per i crimini del Satana amerikano…

Qui ha avuto origine la sindrome narcisistica della società occidentale e delle esistenze che vi abbiamo condotto. Abbiamo costruito un cosmo specchiato, che non faceva una piega, un orizzonte normativo fatto di rispecchiamenti narcisistici che confermavano quel che eravamo: una banda di individualisti appropriativi che si ingorillava sull’acquisizione di diritti infiniti, cancellando ogni debito, ogni dovuto. Abbiamo ritrovato un’idea di legame sociale solo sulla base di questa comunanza del principio appropriativo, ed eravamo addirittura convinti di doverlo chiamare socialismo. Da noi in Italia lo si doveva chiamare spartizione della res publica, mentre facevamo allegramente debito. Poi si è visto com’è andata a finire. La sinistra di base, e non solo il craxismo, è andata a convergere nel berlusconismo, circa l’appropriazione delle istituzioni, la retorica della trasgressione vitalistica, il dissolvimento del patto generazionale e della sua sintassi, l’incapacità di dire il Nuovo e di rompere lo specchio: di interrompere la legge dell’appropriazione, che è la legge della globalizzazione.

Recalcati, dicevamo, riconduce tanto il narcisismo quanto il godimento predatorio al falso mito della auto-generazione. I passaggi argomentativi sono sottili e rischiano di essere tralasciati a vantaggio del tema centrale del tradimento e della sua sofferenza. Sono passaggi che si appoggiano alla grande lezione di Lacan, proprio a riguardo del narcisismo e della “specularità immaginaria che confonde l’Io nell’Altro e viceversa”. “Il primo passo di Lacan al di là di Freud consiste nel mostrare che non esiste possibilità di vita umana senza la presenza dell’Altro” (p. 37). Lacan mostra la linea che unisce il narcisismo all’idealizzazione, e l’idealizzazione al feticismo della merce e alla schiavitù nei confronti dell’oggetto. La nostra cultura narcisistica, che si inebetisce col mito della auto-generazione e dell’assenza di debito verso chicchessia, tende irresistibilmente verso l’idealizzazione. Insegue fantasmi di desideri de-realizzati e realtà di perfezione assoluta, che disconoscono la reale dimensione della finitezza umana e le fanno violenza. Costruisce idoli, cioè ideali che esercitano la loro costante tirannia oppressiva. E viene condotta irresistibilmente verso l’ossessione per l’appropriazione dell’Oggetto, a compensazione di quella realtà della propria esistenza che si fugge sempre di nuovo. Il fatto di mentirsi costantemente, di raccontarsela, di auto-giustificarsi senza voler guardare in faccia la propria imbarazzante realtà, conduce alla perdita della figura intera della vita e del suo movimento, e ci costringe a un feticismo del singolo fotogramma, alla fissità inorganica della materia come inverso simmetrico della allucinazione idealizzante in cui siamo immersi. Perché l’immagine ideale dell’Altro che desideriamo è la nostra propria immagine ideale. Noi maschi desideriamo una donna bellissima, anzi un suo pezzo anatomico, e desideriamo tutto quanto è seducente, perché vogliamo affermare di noi un’immagine di perfezione, che ci garantisca di non farci mai intravvedere la verità su noi stessi. Quanto è seducente è funzionale al potenziamento della nostra personale seduzione, che noi esercitiamo addirittura nei confronti di noi stessi. Ci rendiamo seducenti a noi stessi quando ad esempio costruiamo amori che disconoscono la libertà dell’Altro e pretendono di guidarla e di appropriarsene. Non abbiamo debiti, infatti. Nella misura in cui lo affermiamo e ci affermiamo.

Recalcati sottolinea quindi costantemente che l’amore non funziona su presupposti narcisistici. L’esperienza dell’amore sorge solo dalla rottura dello specchio, e dall’accoglienza dell’Altro come qualcuno che non mi completa affatto, ma al contrario mi de-completa. Chi mi può aprire all’amore non può che essere Altro dalle mie proiezioni e dalle mie idealizzazioni. Proprio l’esperienza dello spaesamento, dell’indebolimento delle corazze narcisistiche, della perdita di padronanza e di equilibrio, e persino l’esperienza del fallimento del proprio sé, sono le condizioni per un amore autentico. Non si tratta di fare Uno, come la autorevolissima tradizione platonica ha suggerito, ma di fare Due, cioè di prendere atto, in modo anche doloroso, che la fusionalità è impossibile oltre che esiziale per l’amore. Che l’amore non è il rimedio alla solitudine, ma il suo riparo. Che Due si incontrano come due esiliati dalla pienezza di sé. L’amore è il dono di ciò che non si ha: si tratta di donare all’altro la mancanza che lui apre in noi.

L’Uno, quindi, è sotto il segno del narcisismo, dell’idealizzazione e dell’ossessione per l’appropriazione dell’Oggetto. Il Due invece è aperto alla vita, che è esposizione e debito. Per questa esposizione all’Altro, è possibile pensare di ricominciare da capo, di iniziare una nuova vita, rifondare un mondo: proprio quanto il pensiero critico non sembra più capace di fare. Infatti, quando diventa possibile fondare un nuovo ordinamento, che interrompa la legge vigente che è divenuta oppressiva, e dica il Nuovo? Solo se il Nuovo è unito allo Stesso, solo se si cerca di ricominciare dall’inizio, dalla stessa donna, dalla stessa società, con quei difetti e quei pregi, a quelle condizioni effettive, per una storia nuova. Per una ripetizione che non è più un’allucinazione idealizzante, una fuga nell’altrove, come accade nei film de sinistra di Salvatores, ma costituisce, proprio nel significato giuridico, un nuovo inizio. Una rinascita di quella situazione, di quella storia, di quel corpo.

Perciò il tradimento porta in sé una possibilità di rinascita – e allo stesso titolo, una possibilità di separazione definitiva. Perché il tradimento è la fine dell’idealizzazione dell’Altro, e quindi la fine di quelle proiezioni narcisistiche che ci renderebbero impossibile aprirci a una storia reale. Il perdono vive ormai nel reale, dopo che il tradimento ha dissolto le proiezioni idealizzanti. “Il lavoro del perdono è innanzitutto un attraversamento estremo della propria immagine ideale sino a vederne il limite reale” (p. 128). E poiché, come argomenta Recalcati, l’immagine ideale dell’Altro è la propria immagine ideale, “il lavoro del perdono può diventare – come talvolta diventa – un’occasione per provare a fare un passo al di fuori delle sabbie mobili del narcisismo” (p. 100). Il lavoro del perdono ci espone alla presenza abrasiva e scarnificante della libertà dell’Altro.

Si tratta dunque, in questo libro di Recalcati, di una meditazione sull’amore assoluto che sa oltrepassare l’appropriazione e quindi il narcisismo. Perché è vero che non conosce davvero l’amore chi non ne conosce la passione lacerante, la quale vuole raggiungere e possedere intimamente l’oggetto, nell’anima e nel corpo. Ma neanche lo conosce chi non si espone all’esteriorità dell’Altro, nel nome suo proprio e mai mio. Solo se l’Altro non è una mia proiezione, il suo corpo non è per me una parte anatomica. Siamo davvero nel corpo, e riconosciamo il corpo dell’Altro, solo se usciamo dal narcisismo e dalle ingannevoli e totalitarie nostalgie di un Intero Assoluto, liberandoci delle allucinazioni feticistiche.

Luca Bagetto

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