Garelli, «La bellezza è esperienza, al centro c’è l’interazione tra cibo e corpo»

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Di Massimiliano Borgia

 

Questa sera a Pensare il Cibo saranno presenti Marc Augè e Gianluca Garelli. Garelli un filosofo che sta acquistando uno spazio di prestigio nel panorama filosofico italiano. Insegna estetica all’Università di Firenze e quest’anno, ha pubblicato con Einaudi “La questione della bellezza”. Questa sera, ci aiuterà a capire il concetto di bellezza che si sta affermando nella modernità e quale rapporto con il nostro corpo (e con il cibo) stiamo costruendo in un mondo sempre più competitivo. «Intanto, dovremmo intenderci su ciò che chiamiamo “modernità”. Comincerei col dire che l’estetica è una disciplina filosofica che nasce con la modernità. Anche se ciò non significa, ovviamente, che i filosofi delle epoche precedenti, fra le loro grandi domande, non avessero anche quella intorno al significato e alla natura del bello. Tuttavia – credo valga la pena osservarlo – è solo a partire dalla metà del Settecento che si incomincia a chiamare “estetica”, appunto, un ambito disciplinare meglio definito del sapere filosofico. Per Kant la moderna concezione del bello si caratterizza per un elemento in particolare: bellezza è ciò che piace senza interesse. Non si tratta di una novità assoluta: in qualche modo, per esempio, già Tommaso d’Aquino aveva anticipato questo modo di pensare la bellezza. Eppure con Kant accade effettivamente qualcosa di nuovo: il gusto – il “buon gusto”, che è proprio di coloro che sanno giudicare correttamente del bello – fa tutt’uno con una contemplazione disinteressata. Se ci accontentiamo anche solo di questa indicazione, possiamo scorgervi un segnale da non sottovalutare: se la bellezza viene concepita come piacere disinteressato, che fine farà mai quella dimensione propriamente erotica (la bellezza come oggetto del desiderio) che invece caratterizzava ampia parte del pensiero antico? Nel Simposio di Platone, per esempio, spettava proprio alla bellezza, attraverso i vari gradi della scala amoris, il compito di guidare l’anima al raggiungimento del bene. Alla “purificazione” del giudizio di gusto da Kant teorizzata si possono ricondurre, con il senno di poi, molti dei paradossi nei quali ancora oggi versa la nostra esperienza del bello. Se infatti il giudizio sul bello dev’essere “disinteressato”, cioè una sorta di pura “contemplazione”, la sfera del desiderio e quella della bellezza sembrano separarsi e intraprendere cammini diversi. Su fronti molto distanti fra loro, ai primi del Novecento tanto Freud quanto Max Weber, insieme ad altri, registreranno questa scissione e si interrogheranno sulle sue conseguenze. Riflettere su di essa, credo, ci può aiutare a scorgere in maniera più nitida paradossi e aporie fra cui si dibatte anche l’esperienza del bello vissuta dall’uomo contemporaneo. E – sia detto per inciso – tutto ciò spiega anche come mai ampia parte degli studi estetici oggi si rivolge – con risultati interessanti, ma spesso senza cogliere il punto di fondo – alla teoria dell’evoluzione o alla biologia, sperando (a volte con successo, altre volte francamente in modo un po’ ingenuo) di ritrovare in queste discipline un modo per restituire all’uomo parte almeno della sua natura animale, ricucendo questa lacerazione». Vale ancora il criterio di bellezza come armonia e proporzione? L’armonia e la simmetria sembra che oggi siano quasi oppressive… «Beh, armonia e proporzione (in parte anche la simmetria) hanno costituito per secoli il fondamento delle interpretazioni della bellezza. Un grande storico dell’estetica, il polacco Wladislaw Tatarkiewicz, definì questo modo di concepire il bello come “Grande Teoria”, proprio perché fino a un certo momento – fino alla modernità, appunto – esso sembrava garantire il Criterio (con la “C” maiuscola) per definire e comprendere che cosa il bello fosse davvero. Oggi, per varie ragioni, questo criterio sembra convincere assai meno. Il che non significa che sia di per sé “sbagliato”, punto e basta. Capita naturalmente ancora che una cosa ci appaia bella perché le sue forme dipendono da rapporti numerici che risultano gradevoli al nostro occhio. Significa piuttosto che la nostra esperienza del bello è ormai di una complessità tale che non si lascia semplicemente ricondurre (né tantomeno ridurre) a questo criterio. Anche qui, si potrebbe dire molto sulle ragioni che hanno determinato questo cambiamento epocale. Se volessimo ostinarci a individuare nell’armonia e nella proporzione i criteri privilegiati di una bellezza pensata “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (per parafrasare il titolo d’un celebre saggio di Benjamin), tutto sommato le cose sarebbero fin troppo facili: disporremmo di una formula magica – una sorta di pietra filosofale – per ottenere tutto il bello che vogliamo e quando lo vogliamo (o quasi). Invece la nostra esperienza ci insegna non solo che le cose non stanno così, e che oggi anzi sembra farsi sempre più difficile esperire il bello in modo autentico; ci insegna anche che spesso i tentativi di riprodurre “meccanicamente” la bellezza generano nuova alienazione, ossia paradossalmente producono una relazione tutt’altro che armonica e proporzionata (e questo vale per l’arte, ove il criterio dell’armonia e della proporzione spesso sconfina nel kitsch; ma anche per la nostra esperienza della natura, o per il rapporto che abbiamo con la corporeità). È per questo che mi sembra deleteria l’istigazione a conformare il proprio modo di essere e di pensare a modelli patinati, di perfezione armonica: il punto è che questo modo di fare, invece di aiutare a trovare nel bello una possibile terapia, parrebbe al contrario riprodurre in maniera esponenziale proprio la patologia che si vorrebbe curare». Nell’arte questo criterio è fuori corso. Rimane forte nella rappresentazione pubblicitaria dei corpi, e quindi nell’immagine di sé che ciascuno si costruisce, con tutta la relativa sofferenza personale e sociale. «Appunto. C’è una tendenza che Georges Vigarello (autore nel 2004 di un libro fondamentale, Histoire de la beauté, dedicato al “corpo” e all’”arte di abbellirsi dal Rinascimento a oggi”)ha chiamato “democratizzazione della bellezza”, e che attraversa in pieno il XX secolo. Questa tendenza ha reso sempre più evidente l’attenzione nei confronti d’una bellezza intesa come mero apparire. Tutti vediamo per esempio che nella nostra epoca la ricerca e la cura di un certo tipo di canone estetico rivestono un ruolo sempre più decisivo nell’affermazione dell’individuo, fino a farsi in qualche caso autentica ossessione. Qui il bello costituisce un’emancipazione spesso illusoria; non sempre, per fortuna (c’è anche chi, poniamo, da un intervento di chirurgia estetica può trarre equilibrio psicofisico, beneficio, magari la giusta fiducia in se stesso). Non sempre, ma spesso, purtroppo. Per tacere del fatto che su quella presunta emancipazione incombe sempre il rischio d’un fallimento dalle conseguenze devastanti. Così, fra i paradossi della moderna concezione del bello cui accennavamo all’inizio troviamo anche questo: non è raro assistere oggi da una parte all’ostentato (e a volte un po’ snob) bando della bellezza da parte della cosiddetta cultura “alta”, cui tuttavia corrisponde (e non solo sul piano del midcult o della cultura popolare) quasi un’inflazione. Di bellezza si parla e si sente parlare di continuo e nei contesti più vari. Il bello costituisce insomma una sorta di “magnete” per le angosce culturali del nostro tempo, nel cui campo esercitano il loro influsso interessi economici diversissimi e a dir poco voraci. Ciò, come accennavo prima, trova un terreno fertile perché la cura della propria bellezza si presenta come valorizzazione del sé, contributo alla costruzione dell’identità della persona, ma infine può rivelarsi nient’altro che un prodotto mediato della tirannia di quello stesso potere dal quale ci si vorrebbe emancipare. Un bel pasticcio. Nel mio libro (La questione della bellezza, 2016) faccio notare quella che a me sembra una coincidenza a dir poco curiosa: l’esortazione che Platone e il suo lontano discepolo Plotino rivolgevano all’individuo affinché questi si rendesse “scultore” di sé, per attingere appieno alla bellezza filosofica autentica, nel 1930 diventava (chissà quanto consapevolmente? Sarebbe interessante scoprirlo…) il motto pubblicitario di un macchinario per la cura del corpo pubblicizzato su Vogue: «Siate lo scultore della vostra silhouette»!   Sembra che il rapporto tra bellezza e cibo sia quasi quello di due nemici: mangiare, oggi, significa soprattutto mangiare poco altrimenti siamo tutti “ciccia e brufoli”…   «Da una parte assistiamo ovunque a un moltiplicarsi dell’informazione “salutista” (o presunta tale) sul cibo. Il che, in qualche misura, è certamente un bene – almeno quando non diventa un mantra un po’ ridicolo. Per esempio: oggi tutte (o quasi) le pubblicità dei prodotti da forno ci tengono a farci sapere che sono fatti «senza olio di palma» (un’affermazione che non merita commento alcuno, se non: perché me lo dici? Forse prima ce lo mettevate senza dirlo? È da una vita che sappiamo che può far male… Oppure ancora: perché non mi dici piuttosto che cosa c’è di buono dentro questi biscotti, poniamo, invece di dirmi quello che non c’è di dannoso per la salute? Che senso ha questa excusatio non richiesta?). Dall’altra – ed è la cosa che filosoficamente mi interessa di più, rispetto a quanto dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata – assistiamo oggi a una compiuta estetizzazione del cibo e del gusto, sia sul piano commerciale, sia più in generale sul piano culturale. Mi permetta di ritornare a quanto le dicevo rispondendo alla sua prima domanda. L’estetica moderna, con Kant, nasceva trasformando la nozione di gusto (che letteralmente è uno dei cinque sensi: anzi, l’intimo fra tutti i sensi, perché è quello che per giudicare esige l’assimilazione della cosa sentita) in una metafora che a ben vedere dice quasi il contrario: il “buon gusto” è ciò che mi fa giudicare del bello senza consumarlo, e lo possiede chi mostra distacco e autonomia di giudizio. Ci siamo soffermati brevemente sulle conseguenze di questo paradosso, e non ci ritorneremo ora se non per aggiungere una cosa. Da qualche decennio abbiamo assistito a un prepotente ritorno della prima accezione della parola («gusto» come senso alla base dell’assimilazione e della nutrizione), che tuttavia si ripresenta come mediato dalla seconda: riscoperta e valorizzazione artistico-culturale del cibo e del vino, riconoscimento di particolare expertise a chi lo produce e se ne intende, equiparazione del cuoco (o meglio: dello chef di grido) all’artista di successo, trionfo (fino all’esagerazione) di programmi televisivi sul tema… e si potrebbe continuare con gli esempi. Si tratta naturalmente di un fenomeno interessante e per molti aspetti forse (quelli che non si trasformano in mero business e che non speculano sulla buona fede del consumatore) culturalmente salutare. Un fenomeno tuttavia che deve essere inteso e favorito nel modo giusto, se si vuole evitare che diventi semplicemente una moda o peggio ancora si tramuti in ideologia, cioè in mera preparazione (tutt’altro che disinteressata, ovviamente) di un pubblico di potenziali consumatori al lancio di nuovi ambiti o prodotti commerciali». Quale rapporto dovremmo invece avere con la nostra immagine e quali canoni di bellezza nel corpo possono rispondere ai disagi profondi che portano fino all’annullamento del valore fisico portato dai disturbi alimentari?   «Questa è una domanda davvero difficile, e confesso che temo di non saperle rispondere in breve, su due piedi. Certo è una domanda che ha profondamente a che fare con la filosofia: dunque la mia cautela potrà suscitare la sua perplessità. Tuttavia ritengo che – proprio come accade per il cibo, o anche per il bello (quando per esempio cerchiamo di “definirlo” una volta per tutte) – anche qui sia bene fare molta attenzione, vorrei quasi dire diffidare di chi si mostra pronto a darci ricette preconfezionate su ciò che dovremmo o non dovremmo fare, credere, pensare, mangiare, ammirare ecc. Mi spiego con un esempio: probabilmente non saremmo mai disposti ad affidare la nostra nutrizione solo ed esclusivamente, che so, allo street food, o magari solo al fast food (anche se sono strappi che ogni tanto ci concediamo, perché ci gratificano, e nell’insieme questo piacere, se praticato con equilibrio, può contribuire al nostro benessere). Ecco: tantomeno affiderei la soluzione di problemi tanto gravi e profondi come quelli sollevati dalla sua domanda a poche battute – mi passi il paragone: a una sorta di fast food filosofico. Anche perché per affrontare questioni come quella che lei mi ha posto non servono generiche diagnosi epocali, ma bisogna conoscere le singole persone, la loro storia. Bisogna cioè stabilire con loro una relazione – che poi, sappiamo, spesso è esattamente ciò che manca all’origine, la carenza che sta alla base di quel tipo di disturbo. Però mi lasci aggiungere una cosa, ritornando solo per un momento al tema da cui siamo partiti. Nell’indagare il bello abbiamo imparato a diffidare di ogni definizione e di ogni dogmatismo, come le dicevo prima; ma sarebbe sbagliato pensare che ciò costituisca un semplice fallimento della filosofia. Direi piuttosto: abbiamo forse capito che quella del bello è un’esperienza, e dunque – si spera – abbiamo finalmente la possibilità di imparare a porre meglio le domande. La mancanza di criteri estetici non dovrà mettere capo per forza all’everything goes, ma anzi – al contrario – cercherà di escludere ogni relativismo recuperando l’idea che alla base dell’esperienza del bello vi sia anzitutto una relazione costruita con pazienza, discussione, confronto, memoria… Il punto è che siamo ossessionati dalla ricerca dei “criteri”, di qualcuno – più o meno autorevole – che ci rassicuri con qualche formula edificante o con l’imposizione di qualche norma (come se poi, quando le regole ci sono sul serio e noi siamo tenuti a rispettarle, fossimo davvero dei campioni nel seguirle…). Qui come altrove siamo portati a credere che dall’esistenza di criteri astratti dipenda la nostra salvezza. Ma le cose non stanno così – e io aggiungerei: per fortuna. Come ha osservato Wendy Steiner (Venus in Exile, 2001), una delle voci più autorevoli nel dibattito odierno sullo statuto della bellezza, se oggi la bellezza ci sembra “una proprietà instabile” ciò accade perché forse ci siamo finalmente resi conto che essa “non è affatto una proprietà”, ma piuttosto, è il nome che diamo a “una particolare interazione fra due enti”. Perché allora non provare a immaginare che questo modo di pensare, fatte ovviamente le debite differenze, possa in linea di principio valere anche per una questione grande e impegnativa come quella della nostra relazione con il cibo e con il corpo?».

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