Una forte critica ai limiti della “Carta di Milano” sul cibo, uscita fuori da Expo, è arrivata sabato 17 ottobre, ultima serata di Pensare il Cibo 2015. Nel confronto tra il filosofo laico Bruno Bodei e il cattolico, economista-filosofo, Stefano Zamagni, il documento che vorrebbe dettare le linee guida planetarie per le politiche del cibo è parso troppo debole, per nulla incisivo, anche dal punto di vista teorico.
Entrambi hanno sottolineato che, alla base delle politiche per il diritto al cibo, non può che esserci una forte critica al modello economico basato sul mercato. Mentre, Zamagni, ha anche sottolineato che senza indicazioni politiche precise, i principi morali contro la fame e per il cibo di qualità rischiano di non venire mai applicati.
Bodei ha puntato il dito sul consumismo, malattia infantile del capitalismo. «Non è mai successo, nella storia, che in una parte del mondo si patisca perché si mangia troppo. E questo, mentre in un’altra parte del mondo, si mangia troppo poco. È vero che dobbiamo ribadire che c’è bisogno di cibo sano, nutriente, e che non si deve sprecare. Ma dobbiamo anche ricordare che il peccato originale del capitalismo è nell’invenzione del consumismo, nell’accelerazione dei consumi nata dalla necessità di uscire dalle crisi di sovrapproduzione».
Bodei ricorda la nascita del “prezzo unico”, dei “supermercati”, del carrello per stoccare la spesa, dei pagamenti a rate e delle carte di credito, tutte invenzioni che non sono per nulla recenti e che dimostrano come, fin dal consolidarsi dell’industrializzazione, il problema dell’economia capitalistica sia stato riuscire a vendere le merci prodotte in serie ad un numero sempre più ampio di persone e in quantità sempre maggiore.
«Il consumismo produce una quantità di cibo mai conosciuta dall’umanità, un’umanità che, dal punto di vista della fame, non è mai stata così bene. Ma si sta così bene perché il capitalismo si è sempre appoggiato al welfare, cioè alle politiche sociali che hanno aiutato l’economia a tenere sempre larga la fascia dei consumatori. Distruggendo le politiche sociali e, con queste, lo stesso senso di comunità, il capitalismo sega il ramo dove sta seduto. Se vince definitivamente la frantumazione avviata dal liberismo si torna allo stato ferino e si fanno mancare quegli anticorpi sociali che permettono agli stessi mercati di continuare ad esistere. Oggi, il grande pericolo è che il liberismo uccida la stessa economia per eccesso di consumismo e per eccesso di individualismo, e che lasci sul terreno fame, migrazioni, guerre».
Per Zamagni, la Carta di Milano non è stata abbastanza coraggiosa. «Non si è voluto dare troppo fastidio, per esempio, proponendo misure per contrastare il land-grabbing, che sta generano la mostruosità degli eco-profughi. Ma non si dice nulla nemmeno dell’azione che la finanza sta esercitando sul diritto al cibo attraverso il meccanismo delle commodities».
Il teorico dell’economia di comunità chiede che vengano subito tolti i generi alimentari come i cereali dalle quotazioni finanziarie e propone di passare dalla società dei produttori, dove l’offerta crea la domanda e dove il fine è il consumo e il mezzo è la produzione, a una società dove i consumatori orientano i produttori.
«Il consumatore è un cittadino con diritti. Diritti che oggi sono confinati nella possibilità di consumare di più e più in fretta (Zamagni parla di “turboconsumatore”). Questi diritti sono negati dalla stessa contraddizione tra il cittadino nella veste di “consumatore”, che ha interesse a pagare prezzi più bassi, e il cittadino nella vesta di “lavoratore”, che ha interesse ad avere un salario più alto. Così le imprese, per abbassare il prezzo delle merci devono abbassare il costo del lavoro: e lo sfruttamento dei lavoratori avvantaggia i consumatori. Una società così è pericolosa, perché ci abitua a dissociarci».
L’economista-filosofo allora propone una società «di consumatori-felici, dove il fine collettivo sia l’innalzamento del livello della qualità. Una qualità che comprenda sia la qualità acquisitiva, cioè il diritto al cibo per tutti; che la qualità espressiva, cioè un consumo che esprima libertà e identità profonde».