Il pasto del filosofo? Sobrio, per non appesantire l’anima

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«Chi studia la filosofia antica non può eludere il concetto di “dieta”, un termine che in greco indica sia il regime alimentare, sia, in senso più generale, lo stile di vita. E chi studia la filosofia non può non conoscere la materialità dell’esistenza, di cui anche il cibo fa parte».

Lucia Pasetti, docente di filologia classica e italianistica presso l’Università di Bologna, che, affiancata dai colleghi Francesco Citti e Federico Condello, ha tenuto lo scorso giugno la conferenza “Cena lussuosa o dieta modesta? Scelte alimentari e scelte di vita nell’antica Roma”.

L’incontro si è inserito nell’ambito dell’iniziativa bolognese “Di piazza in piazza – Viaggio nella cultura alimentare”, che ha coinvolto in particolare ricercatori dell’università in occasione di Expo 2015 e ha prodotto una serie di riflessioni condotte da studiosi di diverse discipline (dalla storia, al cinema, alle letterature antiche) sul tema del cibo.

La professoressa spiega che nell’antica Roma l’alimentazione era un aspetto chiave dello stile di vita di un individuo: «Soprattutto per chi rifletteva, in chiave filosofica, sulle relazioni tra corpo e anima, una dieta adeguata era espressione di disciplina interiore. La dieta era un modo per curare l’anima attraverso il corpo e assumeva di conseguenza un forte valore simbolico: in questo senso, preferire un certo menù significava dichiarare le proprie scelte di vita, i propri valori».

Il pasto del filosofo si caratterizzava come sobrio e simile a quello contadino: «un poeta come Orazio, con forti inclinazioni filosofiche, dichiara apertamente, in più di un’occasione, di voler proporre ai suoi ospiti un cibo leggero che non appesantisca l’anima e lasci spazio al vero significato della cena: condividere con gli amici, in un’atmosfera semplice e rilassata, la riflessione sull’esistenza. Le verdure sono l’emblema di questa scelta».

Pasetti spiega che, al contrario, le descrizioni di banchetti sontuosi provengono da voci critiche nel riguardo degli eccessi. «In questa logica, chi allestisce una cena del genere non vede nel banchetto un’occasione di condivisione, ma uno strumento di ostentazione del proprio status sociale. Gli ospiti non sono amici, ma spettatori, e il cibo diventa il protagonista di uno spettacolo che vuole strappare l’ammirazione del pubblico. L’esempio più celebre è la cena di Trimalcione, descritta nel Satyricon di Petronio: il padrone di casa, un arricchito smanioso di ostentare i suoi mezzi, diventa il regista di una cena-spettacolo che, nel tentativo di stupire a tutti i costi gli ospiti, molto spesso li impaurisce e a volte li umilia».

Il rapporto tra alimentazione e filosofia ha quindi radici antichissime, la cui riscoperta può offrire interessanti spunti di riflessione attuali.

Elisabetta Lachelli

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