Perissinotto, “La moderna indifferenza alla verità va presa sul serio e riguarda anche il cibo”

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Di Massimiliano Borgia

Luigi Perissinotto è uno dei maggiori studiosi di quella che da un paio di anni chiamiamo la “post verità”, cioè l’accettazione di una verità di comodo: la post verità sarà l’argomento della prima serata di Pensare il Cibo 2017.

Perissinotto, insegna filosofia del linguaggio all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È uno dei più importanti studiosi italiani dei meccanismi filosofici dell’interpretazione, una disciplina che, solitamente, è insegnata nei licei sotto il cappello dell’Ermenetica filosofica, che è letteralmente la “filosofia dell’interpretazione”.

Perissinotto ha dedicato una vita a capire come decidiamo se una cosa è vera o falsa, in particolare studiando, davvero a fondo, il pensiero del filosofo tedesco Lugwig Wittgenstein raccontato in tanti libri. Tra i lavori di Perissinotto c’è un classico del 2002 dedicato proprio alle vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea.

«La post verità – spiega Perissinotto – è una di quelle espressioni destinate magari a uscire velocemente dall’uso la quale serve comunque, in maniera forse un po’ confusa, a indicare un problema o a circoscrivere un fenomeno. Direi che quell’espressione sta a indicare nel suo uso più interessante quella che potremmo chiamare “indifferenza alla verità” la quale si coniuga con (o forse deriva da) una diffusa diffidenza nei confronti di quella verità che proviene ed è, per così dire, certificata dalle fonti tradizionalmente considerate (in varia misura e secondo i contesti) legittime e legittimanti; per esempio, la scienza, i giornali, la politica, eccetera. Da questa prospettiva la post verità esiste davvero come fenomeno e ci impone di ripensare (filosoficamente ma non solo) le questioni dell’autorità, della legittimità, dell’oggettività».

La verità è considerata, quindi, una verità che non si può “sapere”, di cui ci si deve fidare.

«Chi afferma che la sua verità è più vera di ogni presunta verità che proviene dalla scienza, dalle istituzioni ufficiali non intende far a meno del concetto di verità; anzi, spesso si ritiene che la verità sia intenzionalmente nascosta o negata (si pensi, al riguardo, alla diffusione dell’atteggiamento complottista soprattutto in rete). In questo senso la post verità accetta la più tradizionale e diffusa concezione della verità come corrispondenza ai fatti».

Quindi a essere messa in discussione, oggi, è la stessa verità scientifica (come nella querelle sui vaccini).

«Il fenomeno della post verità più che mettere in gioco la questione della verità (Che cos’è o che cosa si intende per verità?) mette al centro della riflessione le questione dell’autorità che, in quanto legittima, può legittimare le affermazioni che assumono o pretendono di essere vere. Per esempio: donde nasce, come si è diffuso, a quali fonti e quali motivi può la diffidenza sistematica e pervasiva per la scienza cosiddetta “ufficiale”, per la medicina cosiddetta “ufficiale”. Credo che questo sia un problema che scienziati, medici, docenti, educatori, eccetera non possono evitare di porsi. Non basta (o serve a ben poco) ritenere quella diffidenza un segno di ignoranza e di superstizione se non ci domanda, per esempio, perché la scienza non abbia saputo rendersi, per così dire, pubblica».

Ma come ci convinciamo che una cosa è effettivamente vera? Cosa ci serve per accettare la verità di un fatto?

«Credo che non si possa rispondere in generale a questa domanda. Nei vari ambiti, settori e discipline vi sono metodi, procedure, percorsi attraverso i quali arriviamo ad accettare un dato enunciato come vero o, perlomeno, come (date  nostre conoscenze e i nostri metodi attuali) giustificato. Si noti che l’idea che un enunciato debba essere accettato come vero non contrasta con un atteggiamento fallibilista che è ormai diffuso in gran parte dell’epistemologia contemporanea (quell’atteggiamento secondo cui si può dire che si sa che è P per anche se non si è certi che P). Oggi spesso si tende a pensare che l’insistenza sull’interpretazione equivalga alla negazione che ci siano fatti. Io direi: ci sono fatti ma per stabilire che cosa sia un fatto occorre spesso e volentieri interpretazione».

Come dovrebbe funzionare il nostro meccanismo di interpretazione?

«Direi due cose: (a) in molti ambiti non vi sono propriamente “meccanismi interpretativi”, se con questa espressione si intende assimilare, in qualche modo, l’interpretazione all’applicazione di un calcolo. Del resto, molti di coloro che si richiamano all’interpretazione lo fanno anche per escludere che il nostro pensare sia una sorta di calcolo o di algoritmo. Questo però non significa che non si possa distinguere tra buone e cattive interpretazioni, anche se la distinzione tra buona e cattiva interpretazione non è quella che passa tra “2 + 2 = 4” e “2 + 2 = 5”. Gli esempi che vengono subito in mente riguardano la critica d’arte o l’interpretazione musicale. Ma anche nell’ambito scientifico molto non è riconducile a un calcolo; non solo la formazione di una buona ipotesi, ma anche l’interpretazione da dare a un risultato sperimentale».

Come le teorie della verità possono spiegare la post verità? E come la spiegano?

«Di solito 3 sono le teorie o concezioni della verità che si considerano prevalenti: la verità come corrispondenza, la verità come coerenza e la verità in senso pragmatico. Come ho già ricordato, nell’ambito del fenomeno della post verità non viene messo in dubbio che la verità sia qualcosa come corrispondenza ai fatti; si ritiene piuttosto che questa corrispondenza non sia garantita dalla scienza, non ci sia comunicata esattamente dai giornali, ci sia nascosta dai politici o dalla medicina ufficiale. Come dicevo, la post verità è, da questo punto di vista, molto tradizionale».

Come vede una filosofia dell’interpretazione applicata a quello che mangiamo? Può esistere un’ermeneutica del cibo?

«Si ritiene di solito che l’ermeneutica abbia a che fare con qualcosa che possiamo chiamare “il senso” oppure “il significato” delle cose, degli eventi, delle azioni, eccetera. Ora, è evidente che mangiare e nutrirsi è un dato naturale che può però assumere (e storicamente ha assunto) significati molto diversi che vanno molto al di là della constatazione che si mangia per nutrirsi. Basti solo pensare al significato che le proibizioni alimentari hanno avuto e hanno in molte culture e/o religioni o ai diversi modi in cui si mangia e si considera socialmente corretto mangiare. Da questo punto di vista un’ermeneutica del cibo può e deve essere il punto di convergenza di molti approcci disciplinari (antropologici, sociologici, psicologici, eccetera). Ma vorrei aggiungere anche un altro aspetto: l’ermeneutica, soprattutto quella novecentesca, ha insistito sul carattere finito e relazionale della nostra esistenza ed esperienza. Ebbene, il cibo è uno dei “luoghi” in cui questa finitezza si rivela alla nostra esperienza. In quanto dobbiamo mangiare e nutrirci noi non bastiamo a noi stessi (non siamo entità autosufficienti) ma dipendiamo sempre e costitutivamente da qualcosa di altro da noi (la natura; gli altri,). In fondo, a voler fare un banale esempio, è soprattutto il bisogno di cibo che spinge anche il più solitario e indifferente dei viaggiatori a entrare in contatto con gli abitanti del paese che sta percorrendo».

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